OPINIONE Letto 4714  |    Stampa articolo

Il signor Rossi ritorna al CUP

Foto © Acri In Rete
Leonardo Marra
Finalmente è successo, dopo anni di attesa spasmodica posso nuovamente cimentarmi  in una delle esperienze più eccitanti ed esaltanti che la vita ad Acri possa offrire: eccomi di nuovo alle prese con il fantasmagorico CUP.
E’ ancora viva l’emozione dell’ultima volta, quando, mi accingevo a varcare la soglia di quello che per alcuni rappresenta l’anticamera di uno dei cerchi dell’inferno dantesco, ma che a me, dopo una attenta riflessione somiglia molto di più ad una sorta di purgatorio nel quale espiare non si sa bene quale peccato capitale.
Appena entrato noto che, stavolta,  le “anime” in attesa sono in numero notevolmente minore, sarà colpa delle succursali dantesche poste in giro per il territorio o della stessa gente che ha rinunciato perfino a curarsi? La delusione è notevole;  non potrò socializzare (come avvenne l’ultima volta) o ritrovare vecchie conoscenze con le quali intavolare discorsi interminabili sulla evanescenza della attuale classe politica, sui soprusi quotidiane ai quali siamo ormai avvezzi  a tal punto che  il parlarne finisce inevitabilmente col sembrare una supercazzola prematurata con doppio scappellamento a destra.
Alla fine opto per un agnostico scambio di vedute col mio vicino sul sempre attuale sesso degli angeli ed un successivo saluto ad una cara amica, maestra, che rivedo sempre con piacere.
Mi sono ormai quasi rassegnato a trascorrere il tempo d’attesa residuo in religioso silenzio quando mi accorgo che, per fortuna, gli impiegati allo sportello sono solo due (in realtà non so ce ne siano mai  stati di più) e che vista la durata (misurata in ere geologiche) di ogni operazione, probabilmente ho tutto il tempo di effettuare una sorta di analisi sociologico-comportamentale sulle persone che, via via, affollano la sala d’aspetto.
La prima cosa che noto è che non c’è differenza tra una attesa alle casse del supermercato e la coda all’ufficio prenotazioni: c’è sempre qualcuno che chiede di passare prima. Ecco allora il signore che ha una commissione urgente da sbrigare e non può attendere in coda, la signora che facendo la “gnorri” confida nella disattenzione di tutti e finge di avere già preso il bigliettino marcafila e di essere ritornata dopo aver fatto altro, suscitando le rimostranze di (quasi) tutti i presenti. Poi c’è quello che dice di dover chiedere solo una informazione, ma, una volta ottenuto il consenso di  noi altri, poveri sprovveduti , giacché c’è quasi quasi paga anche il ticket e prenota due o tre visite specialistiche.
Insomma, sarà che io faccio la fila anche quando esco dal supermercato senza aver acquistato nulla, ma mi girano profondamente le scatole quando vedo queste piccole, stupide, inutili, egoistiche sopraffazioni.
Poi, con un amaro senso di ritorno alla realtà mi sovviene la consapevolezza di trovarmi in Italia (la terra dei furbi per eccellenza) e la mia intolleranza si tramuta in sorrisetto di circostanza, tanto per non far vedere a tutti che in quel momento avrei il desiderio di trovarmi in Papua Nuova Guinea.
Improvvisamente sono già le 9.45. Perbacco!  Sono passati solo 45 minuti ed è già il mio turno? Sarà che c’erano solo 6 persone prima di me? Mah!  Che peccato, proprio ora che mi stavo ambientando. In fondo qui sembra una famiglia. Le persone entrano, fanno la battutina all’operatore di turno, si guardano in giro, strette di mano, sorrisi più o meno di circostanza, “oh compà cumu jeamu? Alla cheasa tuttu buanu? E la cummeara?” poi si accomodano sulle sedie ed aspettano. Ed ecco finalmente, quasi inattesa, come una sorta di liberazione catartica sopraggiunge la pausa per gli operatori (“ogni 120 minuti ” recita l’avviso esposto in bella vista) il contratto prevede un intervallo ogni 120 minuti davanti al terminale video. Leggo ancora: “nei 120 minuti è compreso anche il tempo di attesa che il terminale  risponda”. Mi rendo conto di quanto io sia stupido. Sono almeno 30 anni che lavoro per 10 ore filate davanti al PC (a volte anche di più) e di pause ne avrò fatte una decina in tutto. Sarà forse che il rapporto con il pubblico è più stressante delle mie 10 ore di lavoro quotidiano? Alzo la testa; ora c’è un solo operatore, l’altro, giaccone e cappello in testa (già trascorsi 120 minuti?), sta andando in pausa a prendere un caffè, o almeno credo, ma non è il caso di approfondire. La gente (adesso tanta) borbotta sommessamente, ma tace. E’ il mio turno, l’operatrice è gentile, faccio la prenotazione pago il ticket e vado via.

PUBBLICATO 11/04/2015





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