Recensione Letto 2095  |    Stampa articolo

L’handicap vissuto dentro e fuori una famiglia cosiddetta normale.

Loredana Barillaro
Foto © Acri In Rete
La Casa Editrice Menna di Avellino ha pubblicato il nuovo libro di Giuseppina Aiello dal titolo L'handicap vissuto dentro e fuori una famiglia cosiddetta normale nelle cui pagine, partendo da un vissuto fortemente familiare, l'autrice affronta uno dei temi più spinosi della società contemporanea, quello della cosiddetta "diversità", dell'handicap. Lo fa muovendo da lontano, dai primi anni Venti del Novecento, dal racconto della sua famiglia, dei suoi nonni e dei suoi zii, nati e vissuti per molto tempo in una Acri in cui imperversava la miseria e l'analfabetismo. Di uno zio in particolare ella ci racconta, 'Ndonio, di cui, ancora molti, credo ricordino.
Primogenito nato sano si ammala dopo pochi anni crescendo in una famiglia di ben undici figli che, assieme ai genitori, formava la cosiddetta - così si legge nel libro - "tredicina" di Sant'Antonio. Lo colpì una terribile malattia che in seguito si scoprì essere la meningite, la quale fu causa di numerosi momenti difficili per questa persona così fragile, ma allo stesso tempo incredibilmente forte. Un figlio handicappato dunque o, come si dice oggi, diversamente abile e che veniva amaramente definito, talora, 'u ciuatu.
Un testo, un racconto in cui entra prepotentemente anche la storia la quale narra la povertà, l'ignoranza, ma anche la solidarietà. E di un uomo segnato dalla malattia che però, malgrado i tempi, sentiva il bisogno di essere una persona viva, di imparare, di lavorare, di essere parte attiva nella società e di non fare di se stesso un peso.
La sorella, mia nonna, mai lo abbandonò curandolo in ogni sua esigenza e sua nipote gli insegnò a scrivere il suo nome così da poter rendersi utile anche con la gente del piccolo centro.
Come altri testi, anche questo porta in se un contenuto storico, accennando infatti, nella prima parte del libro, alla pratica, tipica del periodo fascista, di concedere un contributo in denaro qualora in una famiglia nascesse un figlio maschio, che poteva e doveva, una volta cresciuto, difendere la patria in un eventuale conflitto bellico. Dunque ancora una volta l'interdisciplinarietà che si fa portavoce di una pratica di narrazione tipica del lavoro di chi è stato insegnante per un trentennio.
Malgrado i tempi l'intera famiglia dimostrò una grande intelligenza, sia i genitori che i fratelli cercarono sempre di far sentire 'Ndonio uno qualunque, uno come tanti, che poteva uscire, poteva parlare con gli altri e rendersi utile anche per la comunità acrese. Una persona attraverso le cui vicende si possono ripercorrere tanti momenti della storia del paese, tante consuetudini così comuni a molte famiglie.
Questo zio può, allora, divenire simbolo, emblema di un tabù con cui forse, allora più di adesso, era facile convivere, probabilmente perché quei valori umani, che si dice oggi non esistano più, erano presenti in ognuno. Un uomo che non ho mai conosciuto, ma che mi è diventato familiare grazie ai racconti di mia nonna prima e di mia madre poi, le quali mi hanno permesso di acquisire, sin da piccola, un enorme rispetto per lo zio 'Ndonio.
Lui, così minuto, paladino di una lotta che ancora non si è vinta. Quella contro i pregiudizi all'interno di famiglie e società "cosiddette" normali, in cui non si sa bene, ancora oggi, quale atteggiamento, quale tratto somatico, quali parole possano definirsi normali.

PUBBLICATO 19/01/2009

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