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Bisogno di appartenenza e di solidarietà

Foto © Acri In Rete
Vincenzo Rizzuto
La nuova realtà che l’uomo contemporaneo si è cucita addosso è quella del villaggio unico, globale, in cui popoli e merci circolano liberamente attraverso uno scambio vorticoso, la cui regia è sempre più lontana, inafferrabile, virtuale come gli scambi e le informazioni informatiche.
In questa nuova dimensione da impero unico, governato dalle categorie della qualità e della competitività ad ogni costo del ciclo della produzione delle merci, non ha più importanza il valore della cittadinanza e della appartenenza, se non sentiti come strumenti di salvaguardia dei propri privilegi da parte di una minoranza privilegiata; l’uomo della strada così viene considerato solo come soggetto che produce e consuma.
In nome delle leggi di mercato, regolato dal profitto, il villaggio globale da più decenni tende a distruggere ogni ideologia, intesa come senso di appartenenza, il nuovo cittadino non appartiene a nessuno: non alla parrocchia, non al partito, non al sindacato; deve essere anodino e appartenere solo al villaggio globale come una pedina che produce e consuma nel migliore dei modi, pensando solo a se stesso e alla sua egoistica sopravvivenza.
Nel villaggio globale tutto è soggetto alla legge del cambiamento repentino e l’uomo che ci vive deve essere capace di estrema flessibilità, intesa soprattutto con il significato derivante dal latino ‘flector’, piegarsi, sottoporsi, che viene contrabbandato con il significato di riadattarsi continuamente e che in realtà si risolve quasi sempre con la perdita di ogni identità. Tutto questo impone al soggetto la necessità di essere sempre al servizio del potere, che non tollera nemmeno lo stato di malattia, di infermità perché essa implica inadeguatezza produttiva e incapacità di competere e vincere. Nella nuova realtà non c’è posto per la solidarietà verso i più deboli, che costituiscono impiccio e peso per la competitività globale.
Il nuovo cittadino così non deve avere identità, patria e valori personali, se essi non possono trasformarsi agevolmente in consumi di massa e positive ricadute di profitto economicamente competitive. In questo quadro aberrante la stessa religione è vista e vissuta come intoppo intollerante se tende a diffondere stili di vita e valori che contrastino con i superiori interessi del villaggio globale, in nome del quale continuamente vengono scatenati conflitti planetari con massacri inauditi.
Questa drammatica situazione era stata ben capita anche dal Papa polacco, Giovanni Paolo II, che, dopo essersi battuto contro le aberrazioni dei vari totalitarismi e le ideologie accentranti che hanno insanguinato il Novecento, si rese conto che dalle ceneri di quel mondo era nato un nuovo mostro: il villaggio globale, appunto, governato da un solo dio: il capitalismo sfrenato, inumano. Un mostro, quest’ultimo, che, lungi dall’assicurare pace e felicità promesse ai popoli, continua a spargere massacri e distruzioni pianificati, magari ricorrendo alla “guerra giusta”.
Contro questo nuovo pensiero debolissimo e pericolosissimo anche il Papa polacco è stato davvero inflessibile e infaticabile nemico, tanto da giungere al punto di fare mea culpa a nome dei cattolici col chiedere perdono, presso la Porta dell’Africa, per le atroci sofferenze inflitte dalla Chiesa alle popolazioni di colore nei secoli passati.
E per fortuna sulla stessa scia di Giovanni Paolo II oggi sembra muoversi il nuovo Papa argentino che, ponendosi come uomo fra gli uomini, afferma in nome del Cristo sofferente di volere essere al fianco dei più deboli per portare avanti con forza intendi di sostanziale solidarietà e fratellanza, senza cui l’esistenza è disperazione e deserto senza senso.

Fratellanza
Sulla croce, Cristo,
tu sudi,
calvario immenso
delle nostre colpe.

Voglio credere in te
perché fratello
ti sono nel dolore.

Ma ti falsano
come altra cosa
e io non ti capisco più.


(Dalla raccolta “Fiori di pietra”)

PUBBLICATO 04/11/2013





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