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Giulia Zanfino: dirigerò un film da Non chiamateli eroi di Nicola Gratteri

Foto © Acri In Rete
Nicole Bianchi
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La terra di Calabria l’ha vista nascere, nella cittadina cosentina di Acri, e poi gli studi di cinema documentario l’hanno portata nella Capitale per un periodo, ma Giulia Zanfino – che al Tropea FF presenta Fuori Concorso il corto Giuseppe Letizia, che racconta una delle storie trattate nel libro Non chiamateli eroi, del procuratore Nicola Gratteri con Antonio Nicaso – dopo aver maturato esperienza nel documentario d’inchiesta ha deciso di “reinventarsi” nel racconto filmico di finzione.
Giulia, il tuo debutto assoluto dietro la macchina da presa è stato con Chi ha ucciso Giovanni Lo Sardo? (2019): quando e come arriva l’arte della regia nella tua vita, e cosa di questo linguaggio hai compreso appartenere alle tue corde?
Il mio primo corto – la docu-fiction in cui ho affrontato più seriamente le mie prime scene di fiction - è stato anche patrocinato dalla Calabria Film Commission e dalla Commissione Nazionale Antimafia.
Credo che attraverso la finzione si possa scendere più in profondità nella narrazione della realtà, laddove lo strumento documentaristico, a cui mi sono approcciata dapprima, non mi dava questa sensazione, perché c’era sempre un filtro tra me e la realtà, inoltre tendo anche a dare più giudizi su ciò che racconto quando mi associo alla realtà in quanto tale; invece, quando mi approccio alla finzione credo di essere più equilibrata, dare più autenticità. Sembra paradossale, forse, ma non lo è.

Da autrice emergente, come stai lavorando per cercare di tenere alta l’asticella, per trovare il tuo posto nel mondo (del cinema)?
Sto scrivendo un lungometraggio con Antonio Nicaso, dedicato a Cocò Campilogo e tratto dal libro Non chiamateli eroi del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri: scrivo con Nicaso stesso e sarò anche la regista; il progetto è ambizioso e difficile, perché parla della realtà di un territorio complesso, il Cassanese in provincia di Cosenza, in cui c’è l’'ndrangheta, bambini uccisi, una storia molto molto forte, che riecheggia un po’ il sottoproletariato pasoliniano, che noi pensiamo non esistere, ma io ho riscoperto molto in quel territorio, ho riscoperto così una Calabria nascosta e sconosciuta, come cristallizzata al secondo dopoguerra.
Parliamo di talento: non tutte le persone che praticano un’arte lo possiedono; il talento è una virtù innata, da coltivare, ma che nessuno ti insegna. Tu hai compreso cosa significhi ‘avere la stoffa’, cosa sia ‘il talento’ appunto?
Il talento si declina non solo con l’attitudine naturale ma ci vuole anche tanto studio, ricerca, il talento non basta.
Non saprei definire il talento, cioè se lo immagino penso a Pasolini.

Personalmente cerco di lavorare con rispetto nei confronti di quello che faccio, anche perché le storie che racconto chiedono grande responsabilità, e quindi penso sempre alla posizione morale, anche nella composizione dell’immagine. Penso il cinema sia uno strumento con un impatto ancora e sempre molto forte sulla società. Poter far circolare il proprio film nei festival, quindi mostrarlo a un pubblico, sempre nell’ottica dell’essere ‘una debuttante’, che valore pensi possa avere per la crescita e la carriera? È importante perché è così che cominci a tastare quanto, quello che fai, abbia un impatto su chi lo guarda: credo sia un momento fondamentale per comprendere se si sia capaci di suscitare interesse. Per la carriera è importante far circolare ‘il nome’, anche perché siamo in un’epoca in cui se non circola non esisti. Comunque rimane un privilegio partecipare a queste occasioni.
Per il mestiere di regista, hai affrontato un percorso di studi specifici o sei autodidatta, hai imparato sul campo?
Ho studiato Regia del Cinema Documentario all’ACT Multimedia di Roma, con Gianfranco Pannone direttore del corso, grande documentarista, poi ho fatto vari stage: al racconto di fiction mi affaccio in punta di piedi, con molta umiltà. Hai un immaginario di riferimento? Assolutamente sì. Per me grande riferimento è Sergio Leone, mentre, più recente, Stefano Sollima: io racconto storie con molta azione, per cui è quel cinema che vorrei mi influenzasse.
Giuseppe Letizia è il corto che presenti al festival di Tropea: in breve, come nasce, cosa racconta, che esigenza artistica esprime?
Il corto racchiude un po’ la sintesi del mio percorso professionale, desidero raccontare storie dal forte impatto sociale e credo molto nella memoria: io spero sempre di dare una chiave di lettura un po’ diversa del territorio in cui vivo; l’idea nasce da un’idea di Emanuele Bertucci, che dapprima mi ha proposto di realizzare un teaser per poi fare un progetto più grande, che è appunto quello di cui ho accennato, del film in scrittura con Nicaso.
Per Giuseppe Letizia mi sono chiusa due mesi in casa a leggere molta letteratura siciliana, la mafia siciliana del dopoguerra non la conoscevo benissimo, poi l’abbiamo girato in Calabria, con cast completamente calabrese, e abbiamo convinto sia Antonio Nicaso, che il dottor Gratteri, a sposare il progetto, per cui adesso siamo in una fase un po’ più delicata, appunto della scrittura filmica.

Il cinema italiano presente che opportunità dà ad una giovane regista, e quali difetti invece avverti, che potrebbero essere migliorati proprio per il futuro della tua generazione?
Il cinema italiano presente offre più opportunità che in passato, perché ci sono anche le piattaforme, ci sono quindi più opzioni. I limiti? Per un produttore, credere nel progetto di un emergente è sempre un po’ una scommessa, quindi forse bisognerebbe scommettere un po’ di più in chi non è nel circuito, non è accreditatissimo, avendo il coraggio di rischiare, magari su progetti meno standard, osando di più sull’autore outsider: è qualcosa che mi sembra manchi e che invece, nel passato, ha portato il nostro cinema alla gloria.
E – proprio pensando alle opportunità - la grande produzione di serie, i prodotti di e su piattaforma, lo sono davvero?
Sì, assolutamente. Certo, dipende sempre dai contenuti e dallo stile, ma – almeno da pubblico – io sono una ‘malata’ di serie.
Però credo possano essere delle opportunità, anche se spero non fagocitino il cinema puro, che mi sembra un po’ sfiancato da questa ‘competizione’.
Può essere comunque una modalità anche per scendere più in profondità nella realtà, perché hai più tempo e spazio per sviluppare la drammaturgia.
Sempre riferendomi a Non chiamateli eroi, potrebbe nascere una docu-serie, un linguaggio che io trovo straordinario, perché racchiude le grandi verità nelle testimonianze, ma al contempo dà all’autore la possibilità di esprimere la propria personalità. (Altri) progetti per il futuro.
Vorrei provare una narrazione un po’ diversa di storie calabresi, che sì raccontino la nostra Storia ma con un linguaggio un po’ più azzardato e ricorrendo all’ironia, tipo quella monicelliana, e mi piacerebbe provare a farlo da indipendente.

Intervista pubblicata su News Cinecittà a cura di Nicole Bianchi.

PUBBLICATO 03/07/2023 | © Riproduzione Riservata





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