Noi orfani della fiera di San Giuseppe
Paride Leporace
“Ma va vinna mustazzuali ara Fera” (Vai a vendere mostaccioli alla fiera) poteva essere motto di sberleffo in una conversazione gridata e contesa, magari di sport, in queste ore tra cosentini autentici.
Non per dileggiare i venditori, soprattutto di Soriano, dei deliziosi dolci duri nella compattezza ma artistici nelle forme di panieri e pesci che si affratella sui banchi ai biscotti lunghi morbidi con prelibata mandorla. Solo una frase legata ad una della date più sentite del calendario urbano bruzio. Niente boutade smargiassa o mascagna. Si è fermato il mondo e quindi niente Fiera di San Giuseppe nella mia Itaca quest’anno. Con i miei preziosi archivi lontani dalla Quarantena non ho potuto verificare se durante la Seconda guerra Mondiale ci fu sospensione come ai tempi del Coronavirus, ma io credo che non si videro i venditori a quel tempo triste assieparsi a San Gaetano dove la Fiera è nata originariamente per stare un solo giorno. Cosenza non ha le grandi feste collettive di chi mescola sacro e pagano sfasciando Carri monumentali o corre per il paese inneggiando a San Rocco. La pietà popolare resta religiosa seguendo la Statua del Pilerio o si incanaglia ad essere blasfema nei momenti d’ira bestemmiando il Crocefisso della Riforma, e invece dal Manco ai Casali si attende, gode, partecipa il grande rito collettivo identitario prima e dopo il 19 marzo che dispone masse di cosentini incolonnati come i cinesi di Hong Kong sciamare tra i banchi nelle ore che vanno dal primo mattino al calar della sera. Tra gli altoparlanti che sparano ad alto volume musica neomelodica o dance c’è chi osserva soltanto, chi va per mangiare mele caramellate con il bastone (ci saranno ancora?), si cercano affari, qualcuno ruba portafogli, si fa il filo tra ragazzi, chi schiera la famiglia in fila indiana per non perdersi come nella canzone di Zazà. Una sorta di pagina Facebook a data fissa la Fiera di San Giuseppe. Dieci minuti, una mezzora, due giorni che decidi di dedicarci puoi incontrare senza darti appuntamento mezzo parentato, i compagni di scuola fatti grandi, gli amici del mare, scansare gli ex fidanzati. Il tuo mondo che diventa collettività casuale dell’incontro in una zona temporanea affollata da buona parte della popolazione di una delle province più grandi d’Italia. Papà Tullio, che era nato nel 1907, mi raccontava che la loro attesa da bambini era per dei cavallucci di caciocavallo ormai spariti dai banchi, che era per la sua generazione, ma anche per quella di mamma Rosa, più giovane, balocco e delizia gastronomica. Ma la Fiera per quei bambini che vestivano alla marinara era raro momento di ricevere giocattoli da scegliere dai venditori giunti da altrove e che mio nonno Giuseppe l’avvocato diceva che comprava per avere il piacere di vederglieli smontare e rompere. Ma qualche bambola di pezza ha superato i decenni affidata amorevolmente a qualche nipote. Ben diverse da quelle bambole kitsch che negli anni Sessanta acquistate alla Fiera venivano messe a centro del letto delle abitazioni popolari. La fiera è acquisto di mobili in vimini programmato per salotto o giardini, rinnovo per l’armamentario di servizi da cucina attratti dalle vocazione urlate dai piattari che oggi hanno il microfono ad aumentare i decibel del venditore, la frenesia della signora con il pollice verde che rinnova il suo serraglio vegetale di qualsiasi dimensione. Alla fiera ti ci portano in braccio, con l’avanzare del consumismo con i passeggini. L’età della monelleria, negli anni Sessanta coincideva con le elementari, ti accoglieva da solo o con la tua banda per quel mondo composito di urlatori e tiri a segno, di artigiani hippy, di Giro a pattuglia che chiedeva tassa illegale. E poi cresci in altezza e negli anni e alla fiera continui ad andare e tua moglie compra il grande paracadutista che ancora ti scende dal soffitto dello studio, e poi porti i figli e gli racconti le storie della Fiera com’era e se abiti lontano quel giorno pensi: “ A Cusenza su tutti ara fera”. Io m’incantavo sui 10 anni a guardare una truffa commerciale organizzata con psicologia e spettacolo. Dal camioncino l’urlatore lanciava alla folla qualche penna o caramelle per attirare pubblico e iniziava un soliloquio spettacolare tutto teso a chiedere soldi momentanei in mano per poter regalare oggetti meravigliosi “ a lor signori venuti a questa fiera”. Promesse di radiosveglie e autoradio e l’imbonimento di parole funzionava a farsele dare quelle diecimila lire con un sì urlato da matrimonio per poi consegnare dei pacchetti avvolti con carta vivace contenenti delle assurde statuette di nessun valore. “Che palle che piove” ma ci vado lo stesso “ara fera” con l’ombrello, e se il 17 marzo si vedevano nuvole la casalinga dal cuore d’oro avrebbe detto: “povera gente chissi ca s’aviani guadagna a jurnata” . Ma con il sole alla Fiera sono rondini in cielo, giubbino leggero, tepore di primavera dopo gl’infami jinnaru e frivaru. Un tempo era il primo gelato di stagione da Zorro a piazza Valdesi che apriva per la ricorrenza. A casa guantierata di zeppole dal dubbio amletico fritta o infornata, e auguri a Pinuzzu, Peppinu u nivuru, Peppe u pitturi, Giuseppe, a signora Pina, nonna Peppinella, donna Peppina, e le più svariate derivazioni del nome più diffuso all’anagrafe di Cosenza superata solo dal Francesco dato in onore del Santo di Paola. Poi anche Festa del papà in tardo Novecento con regali last minute da comprare alla Fiera. Nel calendario urbano si aggiunsero il San Giuseppe rock negli anni Novanta a rendere piccola la notte nel vecchio mercato dell’Arenella e nel tempo i venditori stranieri con i colori di tutte le contrade del mondo sono diventati moltitudine trovando in “Fiera in mensa” la possibilità di aver un riparo sicuro, un piatto caldo, una comunità di volontari che si sentono un tutt’uno con chi ha i suoi commerci per la Fiera e che ti fanno sentir fiero di vivere in una città solidale. Nel 2020 non avremo il piacere di cazzeggiare sul’articolo innovativo più venduto alla fiera. Non si potrà dire “sempi istessi cosi assa fera” Niente polemiche sulla validità dell’itinerario lineare come una retta e “invece come era bello arrivare a Caricchio”, niente apertura sui quotidiani locali, niente troupe televisive che inseguono dettagli, niente truck radiofonico di Franco Siciliano che intrattiene lo sciame umano e qualcuno si chiede: “Ma chissu chi vinna?”. Fiera di San Giuseppe “no… rien de rien”. Niente di niente. Ma a differenza della Piaf ti rimpiangiamo fiera, o per meglio dire Fera omonima di piazza Fera, del dimenticabile bisesto 2020. Fera ti rifaremo “più bella e superba che prima”. |
PUBBLICATO 19/03/2020 | © Riproduzione Riservata
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