Riportiamo un’interessante intervista alla nostra concittadina Raffaelle Lupinacci realizzata da Alessandro Mormile e pubblicata sulla rivista Connessi all’opera. Ne approfittiamo per rivolgere i nostri complimenti a Raffaella.
Il mezzosoprano Raffaella Lupinacci è fra le cantanti di ultima generazione che si sono maggiormente imposte nel repertorio belcantistico. La si è ammirata pochi giorni fa al Rossini Opera Festival, dove ha riscosso grande successo nella impegnativa parte di Arsace in Aureliano in Palmira, estremo approdo di un percorso rossiniano già ricco, che la nostra iniziò proprio a Pesaro, quando, sotto l’ala protettrice di Alberto Zedda, debuttò nel 2012 come Melibea nel Viaggio a Reims che ogni anno il festival pesarese mette in scena con i giovani della benemerita Accademia Rossiniana. L’anno successivo seguì il suo approccio come protagonista in Tancredi per i teatri del Circuito Lombardo: davvero un bel traguardo, cui sono seguiti ulteriori affermazioni nel repertorio rossiniano, a Pesaro e non solo, accompagnati, volendo uscire dall’area specificatamente rossiniana, da altri approcci all’opera mozartiana e del primo Ottocento italiano, belliniano e donizettiano. Molti ricordano il suo Romeo in Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj eseguito al Festival della Valle d’Itria a Martina Franca nel 2018 e consegnato anche al video, in cui Lupinacci si distinse in una parte che fu cara a Maria Malibran, mostrando, soprattutto nell’aria finale sulla tomba di Giulietta, “Ah! se tu dormi, svegliati”, incisività d’espressione ed insieme quella morbida levigatezza d’emissione che fa vibrare la corda patetica e rende la sua vocalità adattissima al repertorio belcantistico, affrontato con cognizione stilistica e pieno dominio dei propri mezzi vocali. L’abbiamo incontrata per parlare del suo già importante percorso artistico, partendo proprio da Rossini.
Signora Lupinacci vuole parlarci dei suoi studi e di come è approdata all’Accademia di Pesaro?
All’età di sei anni ho iniziato a studiare pianoforte ma avevo una predisposizione naturale al canto. Ho scoperto il magico mondo dell’opera dopo essere entrata in Conservatorio nella classe di canto lirico, all’età di quindici anni. Frequentavo, parallelamente al Conservatorio, il Liceo Classico e alla fine del Liceo ho scelto di completare il mio percorso di studi iscrivendomi alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere senza però trascurare lo studio del canto che era – ed è – il vero motore della mia vita. Dopo aver incontrato il mio attuale coach di canto, nel 2012 mi sono presentata per l’audizione all’Accademia Rossiniana di Pesaro: da qui il mio felicissimo incontro, seguito da un periodo di formazione, con il Maestro Alberto Zedda e il debutto nel ruolo di Melibea.
Che cosa ha significato per lei, dopo il debutto in Melibea, il Rossini Opera Festival?
Il Rossini Opera Festival e il Maestro Zedda mi hanno dato l’opportunità di continuare a crescere in un contesto di altissimo livello artistico. Per me, è stata una crescita non solo in ambito musicale ma anche personale.
Dopo aver sostenuto parti di seconda donna come Zulma ne L’Italiana in Algeri, Carlotta in Torvaldo e Dorliska e Doralice ne La gazzetta, eccola finalmente oggi alla prese, ancora a Pesaro, con una grande parte come Arsace in Aureliano in Palmira. Soffermiamoci su questo personaggio e sulle sue caratteristiche, che sappiamo essere l’unico pensato dal genio pesarese per voce di castrato, plasmato sulle caratteristiche di Giovanni Battista Velluti.
Come si è trovata la sua vocalità con una scrittura che sembra essere riflesso, in diversi punti, di quella particolare tinta settecentesca di sapore paisielliano, levigata, arcadica e classicheggiante che in qualche mondo Rossini pensò anche per Tancredi?
È stata una sfida molto interessante! Il ruolo di Arsace è davvero complesso, soprattutto per la sua “disomogeneità” da un punto di vista prettamente vocale: richiede un’estensione vocale notevole e una padronanza tecnica e interpretativa non scontate. Vocalmente, troviamo spesso salti importanti di ottave e cambi di tonalità, a volte anche inaspettati. Spesso, a distanza di poche battute, si ha l’impressione che il ruolo sia scritto per vocalità diverse: si passa facilmente da una tessitura quasi contraltile a una più sopranile. Da un punto di vista musicale, abbiamo l’alternarsi di momenti eroici e di spavalderia (il duetto con Aureliano, per esempio) a momenti di estrema delicatezza, come quelli legati alla componente amorosa, che trovano la massima espressione nei duetti con Zenobia e nelle delicatissime arie del finale primo (l’Andantino di sfumata levità “Chi sa dirmi, o mia speranza”) e della gran scena del secondo atto.
Dal punto di vista prettamente vocale, quali sono i momenti di Arsace in Aureliano in Palmira in cui emerge con particolare evidenza quell’involo nostalgico che in qualche modo si fa strada all’interno di una scrittura comunque non aliena da esternazioni virtuosistiche che fanno pensare a come la vocalità delle parti per castrato cominciasse a spogliarsi, a fine Settecento, da un virtuosismo estremo per sposare, coll’approssimarsi dell’Ottocento, una ultima stagione di belcanto “espressivo” prima che queste voci sparissero definitivamente dalle scene soccombendo dinanzi ad esigenze di maggior realismo nel rapporto timbro/ruolo?
Certamente è nella gran scena di Arsace del secondo atto che nostalgia e virtuosismo fanno da padroni. La gran scena ha inizio con un bellissimo recitativo e un’aria estremamente delicata che introduce immediatamente in uno spazio in cui il tempo sembra essere sospeso, per poi gradualmente ritornare a quella che è la realtà, attraverso lo scoppiettante seppur malinconico rondò “Non lasciarmi in tal momento”.
Penso, ricollegandomi al tema della precedente domanda, ad un’aria di disteso languore come “Perché mai le luci aprimmo”. Cosa richiede questa pagina dalle tinte acquarellate, malinconicamente estatica e alata, a una vocalità come la sua?
La bellissima aria “Perché mai le luci aprimmo” richiede sensibilità ed estrema delicatezza; la voce è quasi in secondo piano. Fondamentali sono i giochi di colori attraverso l’alternanza di pianissimi e mezze voci. L’attenzione alla parola, al testo è fondamentale. È un’aria che richiede contemporaneamente semplicità e verità, con eleganza.
In definitiva, ritiene che eroi innamorati come Tancredi e Arsace (in Aureliano in Palmira) godano di una particolare cifra stilistica che li ingentilisca rispetto a quelli successivi del periodo napoletano (questo al di là di ragioni puramente vocali), connotandoli di una classicheggiante smaltatura, sognante, quasi ultraterrena?
Sicuramente negli anni tra Demetrio e Polibio, La pietra del paragone, Tancredi ed Aureliano in Palmira, Rossini sviluppa molto la cantabilità “affettuosa” dei suoi personaggi. A Napoli, Rossini avrà altre risorse, e probabilmente esigenze anche diverse, dettate da una nuova gestione della sua carriera: nelle mani di Domenico Barbaja, Rossini porterà un’ondata di novità nel mondo del melodramma. Vi è anche da tenere in debito conto il fatto che Rossini a Napoli ha a disposizione un’orchestra di buon livello, i migliori cantanti del momento (felice è sicuramente il suo incontro con Isabella Colbran) e una disponibilità e serenità economica non da sottovalutare. Non credo, però, che un periodo sia migliore o più elegante e raffinato dell’altro, ma semplicemente diverso.
Come definirebbe la sua voce in rapporto alle caratteristiche delle parti rossiniane serie fin qui avvicinate, o di quelle come Rosina nel Barbiere di Siviglia e Angelina ne La Cenerentola in opere comiche, in attesa magari di avvicinarsi anche all’Isabella dell’Italiana in Algeri?
La mia è una vocalità mezzosopranile, che si trova pienamente a proprio agio nelle opere da lei citate. Trovo Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola molto più vicine al mio tipo di vocalità rispetto ad Italiana in Algeri, anche se Isabella è un personaggio estremamente affascinante.
Pensa che in ambito rossiniano possano affacciarsi in futuro anche grandi parti en travesti come Calbo in Maometto II, Malcom ne La donna del lago e Arsace in Semiramide e quali insidie sente che esse potrebbero mostrare per lei, a partire da un piano prettamente vocale?
La scrittura rossiniana è molto particolare. Non escludo la possibilità, in futuro, di poter interpretare personaggi eroici come Calbo, Malcom oppure Arsace ma credo che, per le mie caratteristiche vocali, potrebbe essere molto interessante affrontare un ruolo cosiddetto Colbran. Vedremo lo sviluppo vocale dove mi porterà.
Lasciamo per un attimo Rossini. Come mezzosoprano “belcantista” ci sono stati anche significativi approcci al repertorio romantico, in Bellini, con Adalgisa in Norma e Romeo ne I Capuleti e i Montecchi, o in Donizetti, con Giovanna Seymour in Anna Bolena e Leonora ne La Favorita. Cosa cambia, nella vocalità, nell’espressione e nello stile, quando dal Belcanto puro si passa a parti che richiedono, come nel caso di Leonora ne La Favorita, una scrittura più “Falcon”?
Innanzitutto, cambia la tessitura: nel “Falcon” è più acuta. La difficoltà sta nel conservare le proprie caratteristiche vocali mantenendo sempre un ottimo appoggio e controllo, senza rinunciare alla morbidezza del suono. Le agilità sono meno estreme, sicuramente più legate (molto, poi, dipende anche dalla sensibilità del direttore d’orchestra). Il legato in Bellini e Donizetti la fa più da padrone. Quello che accomuna, però, Rossini a compositori come Donizetti e Bellini è l’attenzione alla parola e l’eleganza nel porgere la frase, con energia, ma sempre attenti a non scadere nella banalità.
Facciamo un passo indietro nel tempo, per il repertorio. La sua carriera l’ha portata ad avvicinarsi anche al Settecento, con alcuni significativi approcci al barocco e, soprattutto, a Mozart. Oltre a Dorabella, Donna Elvira e Cherubino, c’è l’idea di affrontare in progetti futuri opere serie come Lucia Silla, Idomeneo e La clemenza di Tito?
Mozart è uno dei miei più grandi amori. Certamente c’è il desiderio di dare vita a personaggi come Sesto o Idamante; di ampliare, in generale, il mio repertorio mozartiano e riproporre ruoli come quello di Donna Elvira. Cantare Mozart richiede purezza ed emozione controllata, è straordinariamente difficile ed affascinante. Spero che mi accompagni ancora per molto tempo.
Che cosa significa per lei, in definitiva, essere una belcantista? Concentrarsi più sul puro edonismo del suono, o ricercare colori e sottigliezze che diano valore espressivo al significato del canto stesso?
Essere Belcantista è ricercare la bellezza attraverso l’attenzione al testo ed alla frase musicale. Per ottenere tutto questo è fondamentale affinare le sfumature, i colori e gli accenti.
Ha avuto modelli di mezzosoprani del passato o del presente che le sono tornati utili per maturare il suo percorso vocale?
Tanti sono i mezzosoprani del presente e del passato che ascolto e sempre mi hanno offerto validissimi spunti di riflessione (Marilyn Horne, Jessye Norman, Shirley Verrett, Lucia Valentini Terrani, ad esempio). Ma ritengo che la voce sia estremamente personale e unica perché è dentro di noi, è parte di noi. È fondamentale ascoltare con lo scopo di fare ricerca su sé stessi e non di emulare. Se l’ascolto non è fatto con intelligenza, consapevolezza e una buona dose di umiltà, il rischio che si corre è quello di diventare la brutta copia dei grandi del passato e del presente.
La parte di Carmen è già entrata nel suo percorso artistico?
L’ho già debuttata. È un personaggio sicuramente affascinante dal punto di vista teatrale. Ma, a mio avviso, un ruolo molto lontano dagli stimoli e dalle difficoltà vocali che altri ruoli possono offrire.
A questo proposito, fino a dove crede potrebbe spingersi nel tempo la sua vocalità?
Per ora, il mio focus è sul Belcanto, su Mozart, un certo barocco e parti del repertorio francese. Sul futuro, una cosa è sicura: cercherò di fare le mie scelte sempre nel rispetto dell’evoluzione della mia natura vocale.
A chi vorrebbe dire grazie per il percorso artistico fino ad oggi affrontato e vuole dirci se e quanto è stato difficile realizzarlo senza compiere passi falsi nelle scelte operate in rapporto alle caratteristiche della sua voce?
Innanzitutto devo ringraziare la mia famiglia che ha creduto in me (a volte più di me stessa!) sostenendomi sempre, sia psicologicamente che economicamente. I miei genitori mi hanno insegnato ad amare, sin da bambina, tutto ciò che è bello e la musica in particolare, per questo il mio ringraziamento è doppio! Poi, un ringraziamento speciale va al mio vocal coach, Fernando Cordeiro Opa il quale ha capito più di ogni altro la mia vocalità e, con rispetto e pazienza, mi ha consentito di conoscerla a fondo e crescere come artista. Non potrò mai dimenticare il Maestro Zedda che mi ha insegnato lo stile e il buon gusto non solo rossiniano ma del Belcanto in generale. Negli anni di carriera, che non sono tanti, ho incontrato molti musicisti, colleghi cantanti, registi, direttori d’orchestra e da ognuno ho imparato qualcosa. Non è stato sempre facile: non fare passi falsi richiede umiltà, autoconsapevolezza dei propri pregi e dei propri limiti, una buona dose di coraggio nella gestione dei molti fattori esterni che questa professione contempla.
Quali sono i maestri e direttori d’orchestra dai quali ha imparato di più nell’affinare il suo stile?
Se parliamo di stile, senza alcun dubbio il Maestro Zedda ha segnato l’incontro più significativo della mia vita musicale.
Come si pone personalmente dinanzi all’attuale dilagare del regietheater?
Sono sempre molto aperta alle varie proposte registiche. Se quello che viene proposto ha la sua efficacia scenica e non crea problemi nella prestazione vocale, accolgo con curiosità e interesse quanto mi viene richiesto. Penso che nella sperimentazione vi sia la chiave dell’evoluzione ma anche della continuità. Non sempre il risultato finale è poi così efficace, ma osare aiuta ad andare oltre e a creare l’interesse del pubblico.
Crede che il mondo dell’opera stia attraversando un periodo di crisi o ritiene goda di buona salute?
Beh, se dicessi che il mondo dell’opera gode di buona salute significherebbe che sono poco connessa alla realtà. È un mondo che sta vivendo molte difficoltà, soprattutto in Italia e per motivi di diversa natura. Quello che posso augurare è che ci sia una maggiore sensibilizzazione del pubblico verso l’opera lirica e che, nei posti di controllo e gestione dei teatri, vi siano sempre persone con competenze ed amore verso questa arte meravigliosa.
Molti suoi debutti sono avvenuti in Italia, ma la sua carriera ha già un respiro internazionale. Sente un diverso approccio di lavoro fuori dai nostri confini?
Quello che vedo all’estero e non ritrovo, purtroppo, in Italia è una programmazione teatrale definita con largo anticipo. Questo permette all’artista di tracciare il proprio percorso con ordine e lucidità. Spesso, in Italia, i direttori artistici (sicuramente non per loro scelta) si ritrovano a completare i cast con pochi mesi di anticipo rispetto all’inizio delle produzioni. Tale situazione può creare stress nel cantante e, a volte, abbassare il livello delle produzioni. Senza contare che questa prassi preclude la possibilità a tanti cantanti di esibirsi in Italia, perché semplicemente già impegnati altrove.
Chi è Raffaella Lupinacci quando non è sul palcoscenico?
Sono una persona che ama alternare momenti di solitudine a momenti di socialità. Mi piace molto leggere libri di diverso genere (a parte il fantasy). Amo visitare mostre, addentrarmi nelle varie sale dei musei per scoprire o riscoprire capolavori straordinari: in questo sono molto avvantaggiata perché ho la fortuna di vivere a Bologna. Faccio molta attività fisica, sia in palestra che a corpo libero. Amo fare lunghe passeggiate e concedermi tempo per me stessa e i miei affetti.
Quali saranno prossimi impegni e debutti che l’attendono sulle scene e, se ci sono, quelli che sono i cosiddetti sogni artistici nel cassetto
Prossimamente sarò Adalgisa in Norma a Siviglia. Poi sarà la volta di Angelina ne La Cenerentola ad Amburgo, Romeo nei Capuleti e i Montecchi a Liegi ed Elisabetta in Maria Stuarda ad Atene. Nel mentre, si stanno definendo molte altre cose interessanti. Non sogno di presentare sul palcoscenico un personaggio in particolare: mi auguro semplicemente di poter continuare a cantare con serietà e dedizione, accompagnata e sostenuta sempre da una buona salute.