“Scrivi spesso di Acri, dici della tua nostalgia ma tu, oggi, ci torneresti a vivere?”
Antonio è un amico d’infanzia, sua figlia ha l’età di Elisa e anche loro sono diventate amiche di questa infanzia d’estate, la sua è una provocazione intelligente e la mia risposta è d’acchitto, è “si”.
Acri è il paese dove siamo nati liberi da cellulari e tatuaggi, è dove c’erano gli amici, la strada, il pallone, il cinema, le botteghe e l’oratorio:
Acri è la rappresentazione autosufficiente della vita serena che rivorresti vivere, io l’ho vissuta così, ma è ancora così?
Esco a fare colazione, scelgo il primo bar ma non ha brioche di pasticceria, io prima ero abituato a quelle. Prendo una conchiglia scongelata, è quanto faccio allo spaccio dell’ospedale. Vado a pagare, immagino meno di quanto mi chiede Sara, la barista spezzina e, invece, è pari e patta.
Improvvisamente sono fuori dalla bolla fantastica del mio paese, dove tutto pensavo costasse meno che la metà, dove tutto allora non è fatto a mano, dove tutto adesso è così.
L’acchitto è la prima mossa della partita, comincio a giocare davvero.
Quando tornavo dall’università, pigliavo il pullman dalla stazione di Paola e pregavo di non vomitare, c’era un’ora e più di curve fino ad Acri.
40 anni dopo, sono uscito dallo svincolo autostradale e ho rifatto lo stesso segno della croce, le curve sono sempre lì a minacciare il mio stomaco, nulla è migliorato, proprio nulla, anzi.
Non c’è più l’Ospedale ma Acri è un paese a prevalenza geriatrica, la vita media si è allungata, i posti letto sono ristretti e se hai un infarto, un ictus, un’emergenza chirurgica fai presto a far scendere la media. È il risultato della politica della ottimizzazione dei costi, è quanto c’è costato il loro voto, non è quanto a loro costa la nostra vita.
Non c’è piu l’ENEL, non c’è più la SME, non c’è più lavoro, i fondi sono sfitti, le piccole botteghe, tutte quelle che animavano il commercio delle strade e delle piazze piene, sono sparite, fagocitate dai centri di grossa distribuzione, dove non ci sono più titolari dai soprannomi eterni ma cassiere che passano i prodotti sui nastri senza piu la poesia dell’assaggio e senza manco il risparmio promesso, una bottiglietta d’acqua costa un euro.
Non c’è più nemmeno la squadra di Calcio, lo sport adesso non è una bandiera rossonera, è business e i soldi non hanno colore e se non ne hai, il colore lo ritrovi solo nelle foto appese al bar dello sport.
La partita continua.
Il tempo è trascorso, io lo fermo nei ricordi, nelle foto, negli amici che mi fermano per strada e mi dicono “ma tu si u figliu e capoBianco, un si cangiato e nente” e, invece, io ho la barba bianca e ancora qualche capello resiliente.
Acri, tutti i paesi dei nostri calzoni corti, non esistono più, adesso c’è via Ippocrate e corso
Pertini, tutto è cambiato per dirci migliori ma siamo solo diventati più vecchi.
Ieri sera ci siamo ritrovati con Aldo, Mariateresa Capalbo, Teresa Mascaro, Valerio Curto e sua moglie, seduti “supra l’uortu” a mangiare un gelato ma abbiamo gustato i ricordi, raccontandoci le imprese goliardiche del liceo, della prof.ssa Julia, di Francesco Foggia, il prof. di Scienze e di quanto, a turno, non ci ricordavamo più di aver vissuto.
il tempo è trascorso.
Tornare ad Acri è sedersi al tavolo dell’età che non c’è più ed evocarne la presenza, sorridere di gusto con gli amici che sono rimasti e respirare a pieni polmoni l’illusione che sia ancora tutto possibile.
“Eli, tu ci abiteresti ad Acri?” e lei “si papà perché, vuoi trasferirti un’altra volta?”
Acri è un paese per gli estremi della vita, è per bambini e per gli anziani, il minimo comune denominatore è la semplicità di quanto hanno bisogno per dirsi felici, una piazza, una panchina e qui ci sono ed è un paradiso ma la vita di mezzo?
È nella vita di mezzo che si gioca la partita vera, quando le esigenze si complicano, quando studi, esplori, viaggi, sperimenti, lavori, ed è li che può essere un inferno, ritrovarsi nei gironi di un mestiere che non c’è o è sottopagato, magari occasionale e senza certezze, in una strada d’inverno vuota che vive solo le feste e qui c’è anche questo e, per i più con cui parlo, “soprattutto questo”.
Caro Antonio, ritornare oggi ad Acri è un desiderio mosso dal senso di appartenenza ad una comunità che è radicato dentro l’anima di ogni paesano di ogni paese.
Non c’è altra ragione che possa dirsi altra da questa per rispondere alla tua domanda e anche io ho quest’anima ma se vuoi posso dirti anche di un sogno. È bucare la bolla e provare a costruire un idea di futuro e non per vivere di rendita di quanto è stato il passato, seduto su una panchina “supra l’uortu” perché noi, amico mio, non siamo ancora vecchi e abbiamo Elisa, Vittoria, Allegra, Ludovica, Daphne che la vita li porterà via dall’idea che una sola piazza può bastare e, allora, si: io tornerei ad Acri.
Ciao paese mio, è stata una bella vacanza, è un bel sogno e la bellissima notte bianca ne è una speranza viva.