Non al Mucone, al fiume Lete che scorre nell’Ade, regno dei morti. Erano cinque i fiumi di questo regno: Stige – Cocito – Acheronte – Flegetonte – Lete. A noi necessita quest’ultimo, rubava la memoria a chi vi beveva.
Per fare la nostra bevuta bisogna scendere all’Ade, luogo di sofferenza fisica per i cattivi, si poteva visitare, calmando l’iroso Caronte.
L’acqua del Lete aveva la bontà di rubare la memoria a chi beveva la sua acqua, in compenso offriva l’oblio.
Cerchiamo l’oblio nel fiume Lete, il cumolo delle cattive notizie è più grande della discarica di Nairobi.
Attorno a questa discarica è nata una viziosa mafia: per un residuo e puzzolente pezzo di pesce, la ragazza che vuole portarlo nella sua “boma”, .. deve bassare le mutande, se non ce l’ha, basta aprire per la svel.
Poi può scappare verso la boma dove troverà lacrime per il breve ritardo.
Noi, fortunati figli della grande civiltà, non soffriamo la fame, possiamo continuare a consumare, ma da un anno viviamo in “tenebrosa situazione” e siamo narcotizzati da un numero “è diminuito – è cresciuto – è variabile” come il Tempo: oggi uno spiraglio di luce, domani bufera, stanotte nuove fosse comuni, la foresta piange i suoi alberi migliori, lavorati e sotterrati, non metteranno radici.
Silenziose palate di terra si prestano a coprire i nostri grossolani errori.
Un anno è lungo, madre Terra ha offerto i frutti e ora si riprende le foglie, noi non abbiamo fatto quasi niente e il niente preoccupa: le foglie secche non fanno posto alle nuove: la tensione è frenetica ma improduttiva, le notizie sempre le stesse e non scalfiscono. La stanchezza è comodamente seduta e non offre novità, la testa è vuota e sembra strapiena,
Ci vuole radicale lavaggio al fiume Lete: Ulisse ci guida.
Ulisse premette: “Vi precedo, voi camminate uniti e vigili, non tutti gli abitanti di queste balze hanno la testa a posto, i fuori testa abbondano”.
Il Lete di Ulisse è il nostro Mucone, una buona bevuta porterà nel pozzo tutte le deleterie notizie, tutto l’opprimente negativo sarà spazzato via.
Ulisse con volto preoccupato è tornato e ora si riavvicina.
“Amici, il Lete non scorre più e le e le sue pozzanghere hanno cambiato colore, sono rossicce, si torna in casa”.
Torniamo con soprappeso di stanchezza. Stanchezza è indebolimento delle energie fisiche e psichiche, le due energie sono cadute nella melma del torpore, la forza non risponde agli stimoli.
Questo stato di inerzia si presenta in tre sfumature: Stanchezza, le forze sono scese a livello “0”, necessita riposo.
Fiacca: energia si muove con indolenza. Sfinimento: tutto esaurito per super lavoro, perciò il lavoro è emigrato a Nord, sfinimento è restato.
La nostra stanchezza poggia su tre piedi: “Vecchiaia – Malattia – Preoccupazione”.
Di preoccupazioni abbiamo il pieno: peste in corso, fiumi che straripano, ponti che cadono, alberi che perdono le foglie a primavera.
C’è chi suggerisce “riappropriamoci delle antiche energie”. Se ho capito bene bisogna fare passi indietro.
Ci aiutano i Goti che hanno frantumato l’Impero Romano: il comandante arringava i guerrieri: “Non vi preoccupate, né delle ferite né della morte, le walisharja (bellissime ragazze nerborute) vi porteranno nel palazzo di Wotan”.
Su queste bellissime ragazze circolava un proverbio: “la zuppa più appetitosa è sempre pericolosamente bollente”.
Per approfondire, entriamo nel tribunale goto. Nei nostri tribunali troneggia: “La giustizia è uguale per tutti gli imbecilli”.
Nei tribunali goti faceva spicco: “Diffidate dei giudici della civiltà e delle loro sentenze, si fanno influenzare dal denaro”.
Il seggio del giudice goto, dal quale emanava la sentenza era foderato con pelle umana, tolta al giudice corrotto.
Spesso quella pelle era logora per l’uso, ma nessun giudice l’ignorava, non ignorava neppure l’assioma: “Giudice, ricorda di essere giusto e probo”.
Presto la mia penna a Tucidide per notizie sulla peste di Atene durata quattro anni (430 -426 a C): “Atene fu invasa all’improvviso dalla peste, era in guerra e e tutta la campagna si era versata in città. Il sovrappopolamento è ideale per il contagio, i medici erano impotenti e dietro chi si salvava c’era mistero. Improvvisamente i sani erano colpiti agli occhi, alla gola, il loro fiato era maleodorante, il male scendeva al petto, il dolore era intollerabile; il corpo restava cosparso di pustole e non riusciva a sopportare neppure il lenzuolo”.
Anche Tacito vorrebbe la mia penna per la peste di Roma (65 – 66 d C) durante l’impero di Marco Aurelio, ma in quel tempo il famoso Dottor Galeno viveva a Roma.
Su un giornale ho letto un titolo: “L’Italia non sa reagire”. Su di un altro: “La Calabria è affondata per oltre la metà, se volete salvarla, porgete ora la pertica adatta”. “Corona virus”: se finisce e supero… un grande “GRAZIE”.
Due righe per la cronaca: la peste più bestiale fu quella nera del 1346 che si attenuò nel 1350, era scoppiata in Cina, aveva mietuto in abbondanza ed era approdata a Messina.
I conti: un terzo della popolazione italica e germanica sparì. Cito solo Firenze: 100.000 prima, 60.000 dopo. Solo alla fine del 1400 la popolazione riprese salita.
Quella peste ci ha regalato l’allegro Decamerone. Il virus fu isolato nel 1800.
Un significativo quadro di quella peste si trova a Baltimora: in basso uomini e donne che preparano alla sepoltura mentre due monaci recitano il Vespro.
In alto san Sebastiano coperto solo di frecce sembra che dica a Gesù “basta, Signore, a Te basto io”. Sono sicuro che in tempo di peste anche Gesù piange.