Era il 26 aprile di quest’anno quando mia madre, dopo dieci giorni di dolore addominale sempre più forte, entrò all’ospedale di Acri (CS) e iniziò un calvario che nel giro di meno di due mesi la portò alla morte.
L’addome abbastanza gonfio indusse i medici a inviarla con urgenza in ambulanza all’ospedale di Rossano Calabro per effettuare una Tac.
Tornò in serata con la brutta sentenza: carcinosi peritoneale, con interessamento pancreatico ed epatico.
Dopo quindici giorni effettuò una nuova Tac con mezzo di contrasto.
Inutile dire che la sentenza rimase immutata e da quel momento sono iniziate le mie perplessità su alcune scelte terapeutiche a dir poco discutibili.
Il 14 maggio ero a casa, in Emilia, quando mi arrivò la comunicazione che mia madre sarebbe stata dimessa il giorno dopo!
Iniziai ad agitarmi, perché ritenevo inaccettabile l’idea di dimettere una paziente con carcinoma senza aver effettuato una visita oncologica.
In serata riuscii a parlare con un dottore che seguiva mamma durante la degenza in ospedale e gli domandai per quale motivo fosse stato deciso di dimettere una paziente in quelle condizioni senza che sia stata chiesta una visita oncologica.
Mi è stato detto che a causa dell’emergenza Covid non c’era la possibilità di consulenza oncologica nell’ospedale di Acri, perché lo specialista era stato dirottato a non si sa bene quale altro incarico. Allora gli domandai in quali ospedali della provincia ci fosse un reparto di oncologia operativo e tra i pochi elencati il gentile dottore citò l’ospedale di Rossano Calabro!
Incalzai con determinazione, chiedendo come mai non avessero inviato mia madre con l’ambulanza all’ospedale di Rossano per visita specialistica, così come era stato fatto per la Tac.
Il dottore parlò di scelte terapeutiche fatte in equipe, che avrebbe ritenuto emergenziale la condizione d’ingresso, ma non necessaria la consulenza oncologica (forse perché la chiarezza della diagnosi non lasciava scampo?).
Continuai con insistenza, ritenendo la visita oncologica necessaria per valutare lo stato della paziente, anche in relazione alle cure per alleviare il dolore.
A quel punto il dottore, forse pentito di aver accettato di parlarmi, tirò fuori un commento che la dice lunga su un certo modo di intendere la sanità: “Voi vi dovete calare nella realtà locale,” dato che non vivo in Calabria da molti anni e in quella telefonata ho più volte messo in atto un confronto tra il livello di prestazioni sanitarie dell’Emilia Romagna e quello calabrese.
Dopo avergli detto che trovavo paradossale ciò che aveva appena affermato, perché è la sanità calabrese che dovrebbe allinearsi al livello di prestazioni sanitarie delle regioni più evolute e non io a dover accettare senza discutere le inadempienze del sistema, ringraziai e salutai il mio interlocutore.
È chiaro che quell’affermazione era per me inaccettabile e meditando sul da farsi decisi di scrivere al direttore sanitario dell’Ospedale.
Così il 15 maggio, alle ore 8.37, inviai una email nella quale spiegavo quello che era accaduto, quali fossero le mie perplessità e chiesi di non dimettere mia madre in quelle condizioni, ma di rivalutare meglio quelle che potevano essere le scelte terapeutiche più opportune.
Ringraziai per l’attenzione che mi aspettavo mi dedicasse e prima dei saluti: “Le sarei grato e riconoscente se mi rispondesse.”
Non ho mai ricevuto risposta, né la conferma di lettura richiesta e mamma venne dimessa a fine mattinata.
Nei primi giorni andò avanti con la terapia suggerita dal medico curante e il 22, quindi sette giorni dopo la dimissione, arrivò a casa la commissione dell’Adi, Assistenza Domiciliare Integrata, per esaminare le condizioni della paziente, realizzare una Valutazione Multidimensionale e stilare un Piano Assistenziale Individualizzato.
Il 3 giugno, quindi diciannove giorni dopo la dimissione, andai a firmare la richiesta di cure palliative a domicilio e venni a sapere che il nome di mia madre sarebbe stato inserito in un elenco di persone in lista d’attesa, perché la struttura sanitaria Villa Gioiosa aveva già raggiunto quaranta pazienti, numero massimo di cure palliative a domicilio per tutta la provincia di Cosenza, quindi bisognava aspettare!!!
Nei giorni seguenti abbiamo ricevuto due chiamate da Villa Gioiosa: nella prima ci hanno comunicato quello che sapevamo, cioè che mia madre doveva aspettare; nella seconda ci informavano del fatto che forse, entro fine mese, ci avrebbero ricontattato per attivare il servizio.
Quest’ultima telefonata è arrivata il 16 giugno, cioè il giorno prima che morisse.
Mia madre è spirata dopo atroci sofferenze, senza ricevere le cure palliative a cui aveva diritto, con l’unico supporto farmacologico fornito dal medico di famiglia e somministrato da volenterosi infermieri, spesso intervenuti dopo nostra chiamata.
Purtroppo mi sono convinto a consultare il mio amico medico palliativista di Modena solo negli ultimi giorni.
L’ho messo in contatto col medico di famiglia e si sono confrontati per mettere in atto gli interventi opportuni.
L’unica cosa che mi consola sta nel fatto di aver passato quasi tutto questo tempo con lei e in questo periodo noi figli abbiamo condiviso tutto quello che c’era da fare, diventando anche infermieri, operatori socio sanitari e operatori socio assistenziali.
È deprimente però sentirsi abbandonati, sapere che ci sono servizi essenziali che una persona malata dovrebbe ricevere per diritto, e invece?
Vediamo velocemente come dovrebbero funzionare le cose.
La legge n. 38, del 15 marzo 2010, riguardante le “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, definisce le modalità organizzative e i requisiti minimi necessari non solo per l’accreditamento delle strutture di assistenza ai malati terminali, ma anche per l’organizzazione di una rete di cure palliative domiciliari con adeguati standard strutturali qualitativi e quantitativi, al fine di allestire una pianta organica in grado di gestire le necessità di cura della popolazione residente, con una disponibilità di figure professionali con specifiche competenze ed esperienze (Vedi art. 5, comma 3 della legge).
A mio parere il modo in cui in Calabria è stata strutturata la rete di cure palliative domiciliari contrasta con i principi della legge 38.
Non è un’organizzazione adeguata dal punto di vista quantitativo, perché quaranta pazienti da seguire a domicilio sono un numero insufficiente per una provincia di 700.000 abitanti, tanto è vero che per mia madre dal 3 (giorno della richiesta) al 17 giugno (giorno del decesso) il servizio non è mai stato attivato; non è un’organizzazione adeguata dal punto di vista qualitativo, perché se il servizio non c’è non ci può essere qualità!
Le Cure Palliative rientrano nei Livelli Essenziali di Assistenza. I pazienti hanno il diritto di riceverle e il Servizio Sanitario Nazionale ha il dovere di garantirle.
Gli assistiti a domicilio dalla rete di cure palliative della provincia di Modena, giusto per fare un confronto con una provincia del primo mondo, sono stati 1.164 nel 2015, di cui il 67% è deceduto al proprio domicilio con un progetto di accompagnamento nella fase terminale della malattia.
Però mi dispiace deludere chi sta leggendo, il confronto non si può attivare, perché nel mese di marzo dello stesso anno l’ASP di Cosenza decise di sospendere il servizio di cure palliative domiciliari, giustificando il provvedimento con i tagli sulle spese che era costretta a effettuare!
In ogni caso si può fare un confronto più attuale, perché se in tutta la provincia di Cosenza è stato deciso il limite di QUARANTA posti di cure palliative domiciliari, in quella di Modena non esiste un limite predeterminato, e nel mese di giugno 2020 c’erano circa TRECENTO persone seguite a casa!
Aggiungo che la provincia di Modena conta 705.422 abitanti, rispetto ai 701.312 di Cosenza (dati 2019).
I veri mali della sanità calabrese li conoscono tutti e si riflettono sui residenti quando hanno bisogno di cure.
Non è possibile che in molti ospedali calabresi ci siano più dirigenti che posti letto, ma dato che questo succede va preso come paradigma per leggere la situazione che la mia regione vive.
La gestione della sanità è il vero affare, individuato come grimaldello per creare consensi e fare carriera politica.
La politica dovrebbe servire per organizzare sistemi equilibrati di gestione della cosa pubblica, in grado di soddisfare le esigenze della popolazione utilizzando le risorse a disposizione.
La politica in Calabria non risolve, ma complica per trarne vantaggio e per creare proselitismo.
Non è cambiato niente rispetto a quarant’anni fa e non cambierà niente se continuiamo a restare ammaliati dalla solita melodia prodotta
da pifferai che promettono a tutti di risolvere i problemi, promessa poi mantenuta solo per i più fedeli!
Nel periodo in cui mia madre soffriva e la sanità calabrese le negava il diritto alle cure palliative, è accaduto che il Consiglio regionale in soli due minuti abbia ripristinato un vitalizio per chi venga destituito in corso di legislatura, così chiunque abbia fatto parte dell’assemblea, anche per un solo giorno, acquisisce il diritto di ricevere un vitalizio per tutto il resto della sua vita.
Anche se la legge è stata ritirata dopo pochi giorni, la vicenda rimane sconcertante per il fatto gravissimo ammesso da alcuni consiglieri, che si giustificavano dichiarando di aver votato una proposta di legge senza averla letta!
È inaccettabile, mi irrita sentir dire che si possa votare una legge senza averla prima letta, e non aggiungo alcun commento, perché il fatto si commenta da sé.
Da decenni intorno al paese ci sono lavori fermi per le opere che, se ultimate, migliorerebbero la viabilità in direzione di Cosenza e della piana di Sibari.
Da decenni sento parlare e leggo di episodi di aggressione che gli acresi subiscono dai numerosi cani randagi che circolano e si riproducono indisturbati.
Cosa dire poi quando si legge l’avviso che rimanda il programmato ritiro dei pannoloni, che quindi continueranno a restare sui balconi dei tanti appartamenti con anziani allettati? E le date sbagliate sul documento di dimissione di mia madre dall’ospedale, anno 2017 invece del 2020?
Mi limito a questi pochi esempi, ma le inefficienze di chi occupa posti di responsabilità sono innumerevoli, lo sappiamo tutti.
Concludo mettendo in evidenza un aspetto importante, che pesa forse più di tutto quello che ho scritto finora.
C’è un atteggiamento diffuso tra la gente che subisce i danni provocati da questa malagestione della cosa pubblica, non solo in ambito sanitario.
Ogni volta che si viene a sapere di una clamorosa inadempienza si ride o si impreca sulla stupidità dei medici, dei politici locali o regionali, incapaci di agire, di prendere giusti provvedimenti, spesso persino di scrivere.
Ma siamo sicuri che non si possa far altro che ridere, mentre si esclama: “Ma questi sono proprio scemi!”
Siamo sicuri che sia l’unica cosa da fare per mettere in evidenza la differenza tra noi e loro? Siamo sicuri che gli scemi siano proprio loro?
Io non mi voglio calare nella realtà locale per legittimare col mio silenzio l’immutabilità delle cose.
La realtà locale la conosco da quando ero ragazzo e mi pesa dover ammettere che se qualcosa è cambiato è avvenuto in peggio.
Il vero cambiamento non lo porterà la politica, ma sarà la conseguenza dell’impegno che ogni calabrese saprà tirar fuori nel reclamare ad alta voce i diritti negati, senza dimenticare i doveri a cui siamo chiamati e soprattutto mettendo ognuno di noi di fronte alle proprie responsabilità. Non ci sono altre strade da percorrere.
La Calabria non è terra maledetta, come spesso sento dire. La Calabria è fatta dai calabresi, è la somma dell’agire quotidiano di ogni singola persona che vive su questa terra bellissima, è la madre di cui avere cura, sapendo che nel prendersi cura della madre si fa qualcosa per se stessi.
Vivere avendo cura della gente e dell’ambiente che ci circonda rappresenta l’esercizio necessario per arrivare attraverso il sociale, senza favoritismi, a soddisfare il legittimo bisogno di benessere individuale.
Saremo mai capaci di capirlo?