Il saggio “Prima della Ragione, cultura e diritto del popolo in Vico e Sorel”, Tullio Pironti Editore, Napoli 1983, segna in Arena una specie di svolta dei suoi interes-si culturali, del suo modo di porsi di fronte alla realtà, una realtà difficile ad essere da lui condivisa, giustificata e vissuta ‘pacificamente’.
Una svolta, come ci piace chiamarla, esistenziale, che in lui si era annunciata già qualche anno prima, nel 1981, quando pubblicò la prima raccolta di versi: “Pietre e rose”, Edizioni Athena, Napoli, con cui la sua complessa opera di storico del pensiero politico, attraverso i corposi lavori su Palmieri e Longano, inizia a lasciare il posto alla poesia, al canto sofferto ed estemporaneo dell’ anima nel suo profondo; un canto che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua esistenza.
In America, prima di lasciarci per sempre, pubblicò l’ulti-ma raccolta di poesie: “Ombre del giorno”, Edizioni Il Ponte italo-americano, New York, 1995. Arena tuttavia non smise mai di dedicarsi allo studio del pensiero politi-co meridionale con numerosi altri interventi, su riviste specializzate, come: “Francesco De Attellis e le antichità italiche”, Roma SM, 1974; “Gabriele Pepe tra politica e storia”, Sen, Napoli, 1977, “Luigi Serio linguista e politico”, in Prospettive culturali n. 4; “Vincenzo Padula-Socie-tà e politica”, Ediz. Brenner, Cosenza 1994.
Questo per dire che Arena non smise mai di intervenire nel dibattito culturale ogni volta che ne avvertiva la necessità, senza però impegnarsi più in modo sistematico e largo come aveva fatto con i saggi di largo respiro pubblicati tra gli anni Sessanta e Ottanta.
E l’ultimo di questi saggi infatti è quello su Vico e Sorel del 1983 di cui si è fatto già cenno all’inizio.
In esso si affronta il pensiero politico e la concezione della storia nei due pensatori attraverso una rivisitazione criti-ca, sostenuta da una complessa ed esaustiva informazio-ne bibliografica, illuminata scientificamente in ogni pas-saggio secondo il suo rigoroso stile ormai consolidato.
In Vico e Sorel così Arena vede due pensatori le cui opere risultano permeate da forte pessimismo e da profonda sfiducia nella ragione dell’uomo; lo stato di natura per loro è caratterizzato da sempre da paura e violenza e l’età dell’oro pacifica non è mai esistita: “Vana è la boria de’ dotti d’intorno all’innocenza del secol d’oro” (Vico, Scienza Nuova, p. 227, in Arena, cit. p. 172).
E Sorel, antirazionalista, antiborghese e pessimista, ha, secondo Arena, le proprie radici in Vico, quello stesso Vico che nell’ambiente napoletano viene isolato per le sue ee anticartesiane. Vico infatti accusa il filosofo francese di ridurre l’uomo alla sola ratio, che è incapace di spiegare “il mondo oscuro delle ingegnosità, dei gusti, delle fantasie, dei sentimenti, dei non so che”, (Riportato in B. Croce, Gianbattista Vico primo scopritore della scienza estetica, estr. dalla Flegrea 5 e 20 aprile 1901, p. 26, in Arena, cit., p. 8).
E secondo Arena l’anticartesianesimo di Vico trova il suo fondamento nel rifiuto del dominio della ragione e della certezza del cogito, considerato che la Scienza Nuova ha il compito di rinsaldare il ‘Commune hominum iudicium’, la verità, cioé, contenuta nel patrimonio culturale del popo-lo; e in quest’ottica, particolare importanza è riconosciuta ai proverbi, vere ‘massime di sapienza volgare’. Da qui “la rivalutazione di un sapere originario e collettivo, basato sull’esperienza sensibile, e del momento prelogico, emo-zionale e fantastico come momento non tanto contrappo-sto a quello logico quanto piuttosto precedente ed auto-nomo…”(Arena, cit., p. 11).
Vengono così valutati non solo i proverbi ma anche il ‘buon senso’ e la fantasia. E Arena fa anche notare che la scoperta della sfera prerazionale, in tutta la sua ricchezza e complessità, costituisce la grande novità e attualità del pensiero vichiano dalle ‘Orazioni inaugurali’ fino alla ‘Scienza Nuova’, in cui sviluppo storicistico e conquiste irreversibili non sono più verità assolute ma passaggi di ‘corsi e ricorsi’ continui di tutta la storia dell’umanità, nell’età degli dei, degli eroi e degli uomini.
E a distanza di secoli dall’analisi di Vico dobbiamo, pur-troppo, affermare che la barbarie è sempre in agguato, se è vero come è vero che le stragi di interi popoli continua-no ad imperversare sulla faccia della terra, perché l’uomo è “gittato in questo mondo senza cura e aiuto divino”, come dice Pufendorf, condiviso anche da Vico. (Arena, Scritti scelti, ediz. Quaderni della Fondazione, p. 172).
E Sorel, facendo sua la teoria vichiana dei ‘corsi e ricorsi’ storici, rifiuta tutto il razionalismo moderno, e soprat-tutto quello cartesiano quando afferma: “Ho tentato di descrivere le illusioni del progresso, di seguire i consigli dati da Marx… A chi procede ad una indagine scrupolosa della storia appare chiaro: che gli eventi si presentano di una inestricabile complessità, che l’intelletto non può ana-lizzarli senza cogliere in essi delle contraddizioni insoluni-li, che la realtà giace avvolta da una oscurità che la filoso-fia deve rispettare se non vuole cadere nel ciarlatanesi-mo, nella menzogna o nel romanzo.” (G. Sorel, Le illusioni del progresso, a cura e con prefazione di A. Lanzillo, Milano-Palermo-Napoli, Sandrn 1910, p. 19-20, in Arena, cit. p. 15).
D’altra parte, annota ancora Arena, “Cartesio, fondando il suo metodo sulla onnipotenza della scienza o meglio della teoria, e sull’inseparabilità di quest’ultima dalla pratica, si fa sostenitore di un progresso all’infinito, e il suo pensiero si presta a fare da copertura ideologica dell’egemonia politica borghese.” (Arena, cit., p. 16, e A. Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Milano, Feltrinelli, 1970).
E anche Sorel, ricorda ancora Arena, afferma che “non bisogna confondere l’impiego scientifico della ragione con quello che è comunemente chiamato il razionalismo”, e richiamandosi a Pascal, definisce questo atteggiamento “pratica illusoria… metodi tolti a prestito alle discipline matematiche”. (In Arena, cit., p. 17).
E Sorel aggiunge che tutta la storia moderna è un’epoca in cui la classe dominante “vuol possedere una completa scienza del mondo…e chiama scienza ciò che è un modo qualunque d’inventare la natura come Descartes”.(In Arena, cit., p. 19).
Con queste notazioni evidentemente ci troviamo in pieno regime logico-gnoseologico del ‘verum factum convertun-tur’ vichiano, secondo cui l’uomo può conoscere a fondo solo ciò che egli stesso fa.
Secondo Arena, Sorel, rifacendosi ad un giudizio di Taines sul secolo 18°, parla dei gravi pericoli che implica la ragio-ne: “appiattimento e mortificazione delle facoltà indivi-duali, uniformità del sapere, creazione di un modello cul-turale su basi prefabbricate e artificiose, anticipando così di vari decenni tesi che saranno sostenute largamente e con maggiore successo, in particolare, dalla Scuola di Francoforte: basti pensare alla ‘Dialettica dell’illumini-smo’ di M. Horkheimer e di T. W. Adorno, a ‘L’uomo ad una dimensione’ di H. Marcuse e a ‘Storia e critica dell’opinione pubblica’ di J. Habermas”. (Arena, cit., pp. 22-23).
Ma il rifiuto che Vico manifesta del razionalismo, secondo Arena, non investe soltanto Cartesio ma riguarda il modo di concepire la storia della civiltà fino a tutto l’intellettua-lismo occidentale, ad iniziare dal mondo greco e, in parti-colare, Platone, reo con il suo mondo delle idee di avere costruito “un dotto abbaglio, nel qual è stato fino al dì d’oggi seguito…” (In Arena, cit., p. 25); laddove invece la vera essenza dell’uomo è di natura fantastica e immaginativa; e la stessa lingua, lungi dall’essere lingua-idea di carattere artificiale e logico, è un fatto collettivo, popolare che trova nella povertà semantica la sua forza espressiva. D’altra parte, nella teoria vichiana sono proprio le favole che “continuano a giuocare un ruolo notevole nello sviluppo del pensiero”, permettendo ai filosofi di esporre i concetti più astrusi attraverso la sapienza dei poeti e l’autorità della religione.
Infatti i poemi e i canti nazionali sono potenti strumenti dell’educazione dei giovani. (Arena, cit., pp. 51-52).
E ‘Carmina’ o ‘serioso poema’, per Vico, è anche tutto l’antico diritto romano con le sue formule giuridiche che vengono recitate nel foro; e le prime espressioni del linguaggio sono un tutt’uno con le emozioni; non solo ma la stessa idea di proprietà privata nasce dai segni con cui verrà per la prima volta indicata. (Arena, cit., p. 57).
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A questo punto ritorniamo al nostro assunto d’inizio, laddove dicevamo che Arena, a partire dagli anni Ottanta, con la prima raccolta di versi ‘Pietre e rose’, inizia a dedi-carsi in modo sempre più esclusivo alla poesia, al canto, suo primigenio, preferito amore. Di poesia Arena ha sempre vissuto, se la portava addosso notte e giorno, annotata quasi sempre su foglietti di carta sdrucita, che gelosamente ‘nascondeva’ in tutte le tasche dei suoi indumenti, o in una borsa nera di cuoio consuma-to, il cui contenuto veniva tenuto in uno stretto riserbo.
E a questo proposito, come suo amico ricordo che una volta, mentre ci trovavamo nella solita piazza e si discute-va di tutto, gli strappammo per scherzo dalle mani quella borsa misteriosa, e cercammo di aprirla per scoprirne finalmente il contenuto! Ma il ‘Vate’ si infuriò fino a spa-ventarci, e con la sua ‘atavica irruenza’ si riappropriò del ‘mistero’ minacciandoci fulmini e tempeste.
Non ci provammo più, e intorno al contenuto di quell’og-getto misterioso fra gli amici più cari ancora di più continuarono a circolare fantasie e ipotesi: qualcuno affermava che in quella borsa c’era solo un coltellino e qualche galletta durissima di pane ‘antico’, insieme a tanti foglietti di carta sdrucita, su cui erano stati scritti, con grafia criptata che solo lui sapeva decifrare, versi, tanti versi, il suo canto!
Un canto che il nostro Peppe recitava e scriveva ovunque: sui fazzoletti di carta nelle bettole in cui capitava, su foglie secche e sui petali di rose che spesso regalava alle sue donne.
Il suo è stato sempre un canto libero, anarchico, viscerale, che ha la forza e la potenza di una fantasia esuberante, sfrenata come la potenza di un fiume in piena o del temporale che improvviso e procelloso si abbatte sull’uni-verso mondo.
La poesia di Arena è attraversata da una inquietudine che lo ha portato continuamente ad amare e respingere nello stesso tempo la realtà in cui viveva. Si leggano, in proposito alcuni suoi versi senza titolo:
Amo la periferia estrema e profonda
dove s’annida il misfatto
che la bieca civiltà alimenta
le stelle luminose delle montagne
che non sfiorano la fronte
al pastore innocente.
Amo gli affollati caseggiati
gli alberi verdi
il silenzio violento
della gente sfruttata ed inerme.
A volte, poi, il verso diventa tagliente, feroce verso tutti, e il poeta affonda il coltello nella piaga senza pietà come succede in questo breve canto:
La mia terra
Da lontano la mia terra
appare un deserto.
C’è una donna che vende veleni,
un uomo che alleva conigli.
Un fiume è nascosto
da sabbia e cemento
e una chiesa pende dal cielo.
Un ragazzo senza una mano
cerca lavoro e viene arrestato.
Nella mia terra c’è solo gramigna.
E quando il poeta volge lo sguardo pietoso verso se stes-so, ironia e ‘pietas’ si fondono, dando luogo ad un canto altrettanto spietato, fatto di sconsolata erranza, intrisa di dolorosa solitudine, e, nello stesso tempo, di accorata ricerca di fratellanza invocata ai quattro venti con il ‘suono di campana che chiama a raccolta’, come succede nella seguente lirica, una delle più struggenti:
La mia vita
La mia vita vola come un treno espresso
e brevi sono le fermate.
Non dormo la notte
e il giorno il sonno mi sorprende dappertutto.
Vado perdendo i bagagli per le stazioni del mondo,
dove ritrovo i miei sogni.
Non cerco il perdono degli altri
per i miei piccoli e grandi misfatti,
commessi più volte.
Guardiano di me stesso
Impero sulle nuvole e sui venti,
Per arma ho solo un coltello
che affonda nel cuore delle cose
e la mia voce è un suono di campana
che chiama a raccolta.
Anche se vinto, attraverso la giungla,
scegliendo il cammino più lungo.
E questa spietata analisi di una realtà inaccettabile si può cogliere anche nei brevissimi versi in cui è presente anche una dura, inevitabile autoironia:
Intellettuale di sinistra
Legge al mattino dieci giornali
e non sa che ogni giorno
milioni di uomini al mondo
chiudono gli occhi per fame.
Alla fine, per dare al lettore ancora un’immagine di Peppe attraverso un’estrema sintesi, anche se non sono un poeta, mi piace chiudere con alcuni miei ‘versi’, scritti di getto alla notizia della sua improvvisa scomparsa, che ci ha lasciato per sempre più soli:
A Peppe litofago
Sei vissuto libero
come l’acqua scrosciante nelle valli,
come gli uccelli che garriscono nel cielo,
come i cani randagi che non hanno padrone.
Hai amato intensamente la vita,
aspirandone bocconi amari
e dolci lusinghe d’amore.
Hai mangiato la sabbia salata del mare
e i dolci petali dell’acacia in fiore,
come capra che ha voglia di tutto.
Hai saziato le membra con tutto quello
che la terra produce.
Hai amato le donne belle e stupide
al pari di quelle brutte e intelligenti.
Hai lottato per un mondo migliore,
a volte con falsi compagni di strada.
Hai conosciuto persone pesanti
che vivono soltanto di pancia.
Hai pure inseguito l’eterno,
invocando madonne di vario colore.
A Peppe Arena
Su un cavallo bizzarro,
che sempre ti ha portato inquieto
lontano,
sei partito e non più ritornato.
L'Europa, l'America, L'Africa,
con richiamo diverso,
ti hanno incantato,
e tu, Peppe, inseguendo
alati eroi lontani,
hai galoppato veloce,
dalla Casba alla Polonia amata.
Eri armato di messaggi d'amore,
di versi e canzoni accorati,
che il vento ha rapito e portato lontano.
Ti abbiamo ascoltato e parlato
per mesi, per anni,
compagni credenti in un mondo migliore.
E tu, aggressivo e schivo com'eri,
approdato a saggezza profonda,
affabulavi con ironia sottile
incredibili storie sospese
tra il mito e la scienza che amavi.
Ti aspettavamo per questi racconti,
come figli e fratelli fedeli,
appagati del tuo sorriso,
della mano che forte porgevi
a chiunque ne avesse bisogno.
La gente, non importa se vestita
di stracci o di oro zecchino lucente,
tu sentivi e capivi alla stessa maniera,
come pochi profeti hanno fatto.
Hai versato fiumi d'inchiostro,
scrivendo sui treni,
sui petali dei fiori più strani,
sulle pietre e su foglietti di carta
sdrucita, che tiravi dalle tasche bucate.
Ora tace la tua musa,
e tace il tuo sacro furore,
spenti in via “Alle quattro carrozze”.
La ginestra e i bianchi e dolci
Fiori d’acacia, e le cicale e i fichi d’india,
che hai cantato e mangiato,
come “Litofago Ga”, invano aspetteranno
il tuo ritorno e il tuo canto.
Ci hai lasciato, Peppe,
con il dente amaro.
Non sentiremo più,
sotto la pioggia battente
o nelle lunghe notti d’estate,
la tua voce baritonale e calda
di cui avevamo pure bisogno.