OPINIONE Letto 4543

Ricordando Giuseppe Antonio Arena


Foto © Acri In Rete



Aveva solo 33 anni quando nel 1968 pubblicava a Napoli, per i tipi di Liguori Editore, il suo primo lavoro: “Stato e Diritto in Giuseppe Palmieri”, un volume di 130 pagine, denso di un corposo corredo bibliografico ragionato, frutto non solo di rocciosa capacità critico-interpretativa ma anche di vaste conoscenze storico-giuridico-filosofiche come solo studiosi di razza posseggono a quella età.
Arena proveniva da studi classici, seguiti nell’allora prestigioso Liceo italo-albanese di S. Adriano a San Demetrio Corone, dove si erano formati i Mauro i De Rada ed altri importanti esponenti della cultura non solo calabrese.
Arena non era un figlio d’arte, la sua famiglia era di origine contadina e in casa non esisteva alcuna biblioteca avita. A volte egli stesso amava raccontare che spesso leggeva i libri al seguito degli animali al pascolo e che non di rado la lettura preferiva farla arrampicato sugli alberi. Finito il liceo si trasferì a Napoli per seguire il corso di laurea in giurisprudenza, e dopo la laurea corsi di specializzazione in filosofia del diritto verso cui era particolarmente portato.
In possesso della pergamena, diventa avvocato ma da subito si dedica più che all’attività forense agli studi e all’insegnamento di Diritto ed Economia negli istituti medi superiori, unitamente più tardi a corsi tenuti in varie università come Napoli e Campobasso, senza disdegnare altri impegni di carattere politico-istituzionale: fu consigliere comunale e provinciale per il vecchio PCI, ma anche giudice di pace in quel di Napoli.
Tutti questi impegni tuttavia non interruppero mai il suo diuturno lavoro di ricerca e di scavo nell’ambito del Diritto e dell’Economia, che lo videro costantemente ricercatore accanito presso le biblioteche più importanti di mezza Europa e che raggiungeva attraverso viaggi a volte rocamboleschi su treni di fortuna con improbabili orari, un po’ alla stregua dei viaggiatori dell’Otto-Novecento; sforzi, questi, che solo la sua tempra di “litofago-GA” (mangiatore di pietre), come amava egli stesso definirsi, poteva affrontare.
Ho voluto, con queste poche note biografiche, presentare molto sinteticamente la figura di Arena soprattutto ai giovani che non hanno avuto la possibilità di conoscerlo, considerato che, pur nella sua non lunga esistenza, egli è stato sempre in mezzo alla gente per la quale di continuo si è speso con generosità innata, disinteressata, con le tasche proverbialmente ‘bucate’. Non fu un asceta di professione ma certamente lo fu di animo, vista la sua caparbia aspirazione ad un mondo migliore, la sua instancabile attenzione ai più deboli e l’avversione sdegnosa ad ogni forma di ingiustizia.
Con questo primo intervento provo a tracciare le linee essenziali delle opere più importanti di Arena, senza avere la pretesa di essere esaustivo di tutto ciò che egli ha prodotto, compito certamente difficile, considerato che ha dato alla stampa numerosissimi contributi su riviste specializzate nella filosofia del Diritto.
Ma ritorniamo al lavoro su Palmieri come abbiamo premesso.
Arena in questo primo volume inizia ad analizzare le origini del riformismo illuministico napoletano e dell’Italia settentrionale attraverso gli ampi orizzonti culturali che hanno caratterizzato, a partire dalla seconda metà del Seicento, il dibattito su Stato e Diritto. Egli dimostra la presenza in Italia, su questo dibattito, di un pensiero autoctono sotto molti aspetti, che pur ispirandosi al resto della cultura europea, sopra tutto francese e inglese, trova in Palmieri uno dei primi e più importanti rappresentanti.
Arena, in quest’opera, dopo avere puntigliosamente analizzato la monarchia borbonica di Carlo III e Ferdinando IV, succubo dei suoi ministri corrotti e della moglie Maria Carolina, mette in evidenza il grande sforzo tentato dal Palmieri per risanare non solo le finanze ma anche le istituzioni su cui lo Stato poggiava.
In questa analisi Arena mette in evidenza sì l’assoluta mancanza di una teorica dello Stato e del Diritto in Palmieri, ma nel contempo ne riconosce il ruolo importante e più significativo nell’ambito dell’illuminismo napoletano e di tutta la cultura meridionale della seconda metà del Settecento. Di lui infatti si disse che, divenuto Ministro delle Finanze, “portò quasi la filosofia sul trono.” (V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 17999, in Arena, pag. 15).
Arena non cade però nell’angustia dello studio celebrativo del personaggio perché ne analizza criticamente in lungo e in largo anche i forti limiti teorici e ci informa, attraverso rigorose e ampie citazioni di fonti, che il Palmieri, pur portando avanti un conservatorismo illuminato e progressivo, non condivise l’opera del Beccaria, né quella dei philosophes, che vedeva come intellettuali astratti e fuori dal contesto storico della realtà sociale ed economica.
Palmieri infatti sottolinea per primo, nel dibattito culturale sullo Stato, l’importanza dell’economia, della equa ripartizione del carico tributario e dei guasti che produce l’esosità del fisco, amministrati nel Regno da rapacità, da ruberie e da privilegi assurdi, specie da parte del clero e da una nobiltà parassita, che non lavora e sperpera enormi ricchezze.
Nell’analisi raffinata di Arena Palmieri viene visto sì come un marchese, appartenente anche lui ad una nobile famiglia pugliese, che condivide la fisiocrazia del latifondo, ma di un latifondo amministrato con intelligenza in modo da farlo produrre al massimo insieme ai commerci e all’industria; attività, queste ultime, snobbate e mortificate dall’aristocrazia del tempo.
E Arena dimostra come il Palmieri abbia portato avanti, fra mille diffidenze e intrighi, l’urgenza e la necessità di dare lavoro a tutti per diffondere una vasta opera di risanamento dei costumi, cercando di combattere così, senza tregua, vagabondaggio e accattonaggio, che erano alla base della delinquenza diffusissima in tutto il Regno.
Per questa opera di risanamento egli sostiene l’idea che i vagabondi devono essere costretti dallo Stato, anche con la forza, a lavorare e produrre. E in questo illuminismo conservatore trova spazio anche la grande attenzione che Palmieri attribuisce all’educazione delle masse popolari e alla loro assistenza sanitaria che lo Stato deve assicurare. Idee, queste, che sono alla base della nascita dello Stato moderno, attento alla ‘felicità’ di tutti per i superiori interessi del Regno. (Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1778, rip. in Arena, pag. 26). La società e lo Stato per lui si fondano innanzi tutto sulla famiglia e poi sulla concezione contrattualistica, tenendo conto che al fondamento dell’agire umano egli pone i bisogni, che muovono il mondo. Ma per soddisfare i bisogni e la ricchezza della nazione non bastano i prodotti della terra, sono anche necessari le arti e l’industria, e perciò egli da economista guarda al modello olandese e propugna un contenimento delle imposte dirette sulla terra, a favore di imposte indirette sui consumi.
Arena sostiene che Palmieri, rispetto ad altri riformatori del ‘700, quali il Longano, il Galanti, il Briganti o il Cagnazzi, che hanno descritto in modo ‘doloroso e dettagliato’ la grande miseria delle masse contadine del Regno, conduce un’analisi ‘più acuta e profonda’ delle cause di tale miseria. Una miseria, ci permettiamo di aggiungere noi, già descritta come insopportabile nell’analisi di Tommaso Campanella nel Viceregno spagnolo del ‘600.
Ma Arena non si stanca di ricordare al lettore che il Palmieri, pur nella sua concezione più moderna dello Stato e del Diritto, presenta dei forti limiti, perché sul piano politico si mantiene sempre nell’ambito di un’accezione antidemocratica e assolutistica dello Stato con il ricorso alla forza e al metodo coercitivo nella soluzione dei grandi contrasti sociali. E infatti, poco tempo dopo la sua morte, a Napoli, in Piazza Mercato vengono innalzate le prime forche, e il regime di Ferdinando IV diventa sempre più spietato e soffocante.
In Palmieri come in tutti gli altri intellettuali italiani del ‘700 davvero mancava una teorica sistematica dello Stato e del Diritto, che venivano ancora concepiti con una concezione eclettica, in cui confluiva in modo approssimativo buona parte del pensiero europeo: da Grozio a Rousseau, a Locke a de La Mettrie, a Bayle ad Hobbes.
Di quest’ultimo Palmieri condivideva in pieno la visione pessimistica dell’homo homini lupus.
Ma allora, qual è l’originalità del Palmieri? A questa domanda Arena risponde che egli, insieme a Galanti e Pagano, rispetto agli altri illuministi napoletani, si distingue per una maggiore attenzione verso l’economia, la società e la concezione della storia, che specie Palmieri vede come lo svolgersi degli urti tra gli uomini spinti dai bisogni e dalla divisione del lavoro, che sono certamente alla base di una più complessa e moderna visione della realtà storica; e questo maggiore interesse per la storia è dovuto, afferma ancora Arena, senza dubbio all’influenza dell’opera del Muratori.
Da tutta questa analisi, così minuziosa e documentata, del saggio di Arena sull’intero panorama dell’illuminismo napoletano e italiano, viene fuori che, tranne il Longano e il Pagano, tutti gli altri rifiutano ancora il concetto di uguaglianza fra gli uomini, e Palmieri sostiene con forza che in natura ci sono deboli e forti che tendono a sottomettere gli altri; ma è anche convinto che tutti gli individui sono uguali di fronte alla legge, perché “ La sicurezza e la tranquillità debbon godersi da tutti ugualmente, ed egual esser dee la felicità.” (Palmieri, op. cit., pag.339, in Arena pag. 61).
Come si vede, e lo afferma più volte Arena, in Palmieri convivono sia l’assolutismo che l’aspirazione illuministica ad un mondo più libero, più eguale, in cui a tutti sia assicurata la ‘felicità’, con tutti i limiti che questa espressione trova nel pensiero del marchese; e non poteva che essere così, visto che egli in nome dell’assolutismo rifiuta anche la teoria della divisione dei poteri dello Stato moderno, teorizzata dal Montesquieu. Per Palmieri “Il popolo è un composto di fanciulli adulti, i quali non sanno conoscere il loro bene, e bisogna condurveli per mano.”(Palmieri, op. cit., pag. 204, in Arena, pag. 88).
Comunque egli, pur facendo registrare contraddizioni e limiti, nel complesso non rimane insensibile alle nuove istanze di libertà e di progresso che aleggiano nel suo tempo, se è vero che in lui è già maturata l’idea del lavoro come strumento di socializzazione e di riscatto dell’uomo, nonché l’altra avanzata idea che l’educazione sia alla base del rispetto delle leggi da parte delle masse!
Tutto questo veniva concepito, non si deve mai dimenticare, in un Regno, di Carlo III prima e di Ferdinando IV poi, in cui nel 1776 il primo Ministro Bernardo Tanucci, riformatore per eccellenza dello Stato e avversario accanito dello strapotere del clero e dei baroni, veniva cacciato in malo modo dal governo da Maria Carolina, la vera padrona dispotica del Regno; e del Tanucci, dopo la morte, si fece scomparire perfino la tomba, forse anche per essere stato uno degli artefici più accaniti della cacciata dei gesuiti nel 1773.

PUBBLICATO 25/09/2018  |  © Riproduzione Riservata

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