Vorrei raccontarvi una storia. Perdonate la mia lungaggine, ma ormai sapete che non riesco ad essere sintetico.
Può accadere che, un giovedì qualunque di un anno qualunque, complice l’età che avanza e (forse) un calo improvviso della pressione arteriosa, si possa cadere in casa propria, sbattere violentemente la testa procurarsi una ferita al capo e, a causa del colpo violento, smarrire il senso della realtà, avvertire la presenza dei nostri cari attorno che cercano di rianimarci ma, pur avendo una lieve percezione di ciò che accade, non riuscire ad interagire con loro.
Accade che si viene portati d’urgenza al pronto soccorso dove, per fortuna, dato che si è “più di là che di qua”, veniamo fatti entrare immediatamente, non come quella volta in cui nostra figlia con un dolore addominale che la costringeva a contorcersi fin quasi a raggomitolarsi a terra veniva fatta attendere per ore ed ore prima di poter essere sottoposta alla visita di un medico (bontà sua). Anche questa volta, una fin troppo zelante infermiera, allontana tutte le persona che, con il loro affetto, vorrebbero destarci dallo stato di torpore nel quale stiamo precipitando.
Per fortuna, nostra figlia, caparbiamente ostinata a volerci stare vicino, infischiandosene dell’espressione stizzita ed inutilmente provocatoria dell’infermiera, resta con noi nel pronto soccorso.
Qui faccio un inciso: è proprio lei che fornisce ancora una volta i dati necessari a stilare la carta di ingresso al pronto soccorso (l’inevitabile burocrazia) e quindi nome, cognome, residenza, età, dinamica dell’incidente, patologie in corso o pregresse, terapie farmacologiche, allergie …, ma non le avevano già fornite agli operatori del 118? E se nostra figlia fosse rimasta fuori dalla porta, come le intimava l’infermiera, chi avrebbe fornito queste informazioni?
Intanto siamo lì e, nel torpore che a pervadere anche il profondo dell’anima, troviamo conforto in quella mano che ogni tanto ci accarezza il viso ed in quella voce che, pur nello stato di pre-incoscienza nel quale versiamo, riconosciamo essere di nostra figlia.
Vorremmo sorriderle, tranquillizzarla, ma non ci riesce.
Dopo qualche ora, una TAC, forse anche una radiografia e le analisi ematologiche, solo alla fine, quando il quadro sembra completo la dottoressa di turno fornisce informazioni alla famiglia che, finalmente, può tirare un sospiro di sollievo.
Scongiurato il pericolo di una complicazione a livello cerebrale
E’ però necessario un periodo di osservazione non inferiore alle 48 ore (così è la prassi). Ma il reparto è al completo (proprio come gli alberghi… peccato, a saperlo prima prenotavo).
L’unica soluzione sembra essere un trasferimento in altro ospedale.
I nostri familiari cercano di capire se possa essere percorsa un’altra strada, per esempio il ricovero in altro reparto. Siamo anziani, è accertato che non ci sono pericoli e bisogna solo che trascorrano 48 ore.
Tutto sommato questo è pur sempre un ospedale, perché sottoporre noi ed i nostri familiari ad un “esodo” a notte tarda? Ci ricordiamo di quella volta in cui nostro figlio dovette essere ricoverato al Bambino Gesù a Roma, ma, giunti lì, non avevano più posti nel reparto assegnato.
Nessuno si sognò di trasferirlo al Gaslini di Genova, semplicemente trovarono posto in un altro reparto.
Nel nostro caso, alla fine, i medici trovano una soluzione. Ringraziamo dal profondo del cuore che si siano ricordati di Ippocrate, dei nostri diritti di cittadini malati, della Costituzione e “si siano messi una mano sulla coscienza”. Tiriamo un sospiro di sollievo e ci affidiamo fiduciosi alle cure dei medici.
Ci portano in reparto. Solo ora ci rendiamo conto di un dolore al costato, sarà colpa della caduta, domani lo faremo presente, per ora vogliamo solo dormire.
E’ venerdì, stiamo meglio, i farmaci che ci hanno somministrato hanno fatto il loro effetto, non abbiamo più torpore, solo quel fastidioso dolore al costato. La giornata passa così, tra le chiacchiere con i compagni di stanza, la terapia farmacologica e questo maledetto dolore cha adesso diventa ancora più fastidioso. Lo comunichiamo agli infermieri.
E’ sabato mattina, il dolore è lancinante, non riusciamo a muoverci, anche il solo respirare ci provoca delle fitte. C’è necessità di andare al bagno, ma abbiamo il terrore di alzarci. Ci viene praticato un RX al torace per verificare la natura del dolore. Passano le ore, cambiano i turni e nessuno sa dirci se l’RX è stata visionata da un medico, nessuno ci informa dell’esito e non c’è un medico al quale rivolgersi. Ma allora che senso ha fare delle indagini mediche e strumentali se poi nessuno ti dice cosa hai, se non puoi fare nulla per alleviare il dolore. Magari non si può far nulla, ma volete dircelo? Non sappiamo se possiamo muoverci o se bisogna stare immobile, proviamo a non respirare, ma dopo un po’, chissà perché, dobbiamo inspirare necessariamente dell’aria. Abbiamo di nuovo l’esigenza di andare in bagno. Ci aiutano ad alzarci. In piedi si soffre di meno, ma potremo restare così o bisogna rimanere sdraiati? E’ sera, ormai abbiamo rinunciato a capire la causa del dolore, domani è domenica, difficilmente cambierà qualcosa. La domenica è sacra. Lunedì magari qualcuno si degnerà di darci informazioni. Magari potremo lasciare l’ospedale, o forse no, magari nel frattempo maturerà qualche patologia che richiederà il nostro permanere in ospedale. Ci sono persone che sono rimaste per settimane.
Per ora restiamo qui.
Per carità, passato lo spavento iniziale, ci si rende conto che la nostra patologia, in confronto ad altre, può sembrare poca cosa, ma questa esperienza evidenzia come ci siano delle fratture tra medico e paziente nel decorso ospedaliero, come, a volte siano sufficienti dei piccoli accorgimenti a livello di regole comportamentali, per rendere la permanenza in ospedale una esperienza meno traumatica.
Basterebbe una presenza costante del personale medico nei reparti anche per la “normale amministrazione”. Non è pensabile che passate le quattro ore della loro presenza in reparto, per ogni informazione o autorizzazione ad operazioni che non rivestano carattere di urgenza, si debba attendere il giorno seguente. E’ necessaria una collaborazione più stretta fra gli operatori sanitari, siano essi infermieri (che a cambio turno dovrebbero passarsi le consegne, anche le più banali, in modo da evitare risposte tipo “non lo so”, “sono arrivato ora”, “bisogna chiedere all’infermiere che era di turno”) che operatori del 118 o del pronto soccorso (le informazioni fornite sul paziente possono essere trasferite dagli uni agli altri senza la necessità di doverle ripetere in un momento di estrema concitazione).
C’è bisogno di formazione per il personale infermieristico in modo che tutti abbiano la percezione che al di là di un contenitore fatto di derma, muscoli, ossa, vasi sanguigni, ed apparati uro-genitali ci sono persone con un carico di sofferenza, che non hanno scelto di andare al pronto soccorso o ricoverarsi in ospedale, ma vi sono stati costretti dagli eventi della vita.
E’ necessario che i parenti dei pazienti vengano visti come una estensione del paziente stesso e vengano costantemente informati di ogni seppur piccolo cambiamento nello stato di salute del loro caro.
E’ necessario che gli operatori sanitari (non tutti per fortuna, perché qualcuno riesce a dare tanto pur nella precarietà nella quale è costretto ad operare) vengano sensibilizzati sul compito al quale la loro professione li sottopone (in questi giorni mi sono stati riportati episodi che, se veri, sarebbero gravissimi, ma che non riporto perché il “sentito dire” in questi casi potrebbe danneggiare sia chi riporta l’episodio che il soggetto dell’episodio stesso).
Non è necessario che si partecipi alla sofferenza del paziente, questa è una caratteristica che non è richiesta a medici ed infermieri, ma avere sempre presente che davanti a loro c’è una persona con la sua dignità ed i suoi diritti questo sì che è richiesto.
Se non riusciamo a comprendere queste semplici, basilari norme di civiltà, allora perdonatemi se vado contro corrente, ma è inutile che si faccia la fila davanti alla porta del commissario alla sanità, inutile voler tenere aperto ostinatamente questo nosocomio, il centro dell’attenzione deve essere il malato come persona e non la struttura ospedaliera in quanto tale. Prima di tutto comprendiamo questo.