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Dossier Antimafia. «Calabria povera di giornali pienamente liberi»

Foto © Acri In Rete
Pablo Petrasso
«Difficile capire quale sia la linea di confine tra minacce malavitose in senso stretto e semplici atti di intolleranza di poteri e potenti che mal sopportano una stampa non allineata. Non di rado gli uni si fanno scudo attraverso gli altri, come testimoniano alcuni episodi ricostruiti soprattutto in Sicilia e in Calabria». È dura muoversi nel mondo dell'editoria. Anche perché, «accanto a un numero sempre crescente di giornalisti minacciati, aggrediti, offesi, sopravvivono alcune sacche di informazione compiacente o reticente». Editori che chiedono il silenzio su fatti o nomi innominabili, direttori che sorvegliano, condizionano, redarguiscono. Casi sui quali «l'Ordine dei giornalisti ha ormai abdicato a esercitare una funzione di fattivo controllo, avendola ormai dovuta delegare per legge ai cosiddetti Consigli di disciplina. Che fino ad oggi – nei dati che ci sono stati messi a disposizione – hanno funzionato poco o nulla». Gli estratti – allarmanti – arrivano dalla relazione che la Commissione antimafia ha dedicato allo stato dell'editoria. Documento che dedica un lungo capitolo all'«informazione in Calabria» e al «caso di Calabria Ora». 

IL CASO CALABRIA
 Il capitolo si apre con ampi stralci dell'audizione di Michele Albanese, giornalista del Quotidiano del Sud tuttora sottoposto a tutela dopo aver ricevuto ripetute minacce. Un uomo, secondo le valutazioni contenute nella relazione, «più preoccupato di non poter più essere libero di raccogliere notizie e raccontarle ai lettori che della propria sicurezza. (...) La Calabria – spiegano i commissari dell'Antimafia – è piena di giornalisti come lui, tanto quanto è povera di giornali pienamente liberi dalle pressioni esterne, anche per la scarsa presenza e attenzione da parte delle grandi testate nazionali». Albanese subisce furti in casa, danneggiamenti, minacce a lui e alla sua famiglia per aver cercato di raccontare gli interessi della 'ndrangheta prima che emergano dalle indagini giudiziarie. Non si può, in una terra di mafia. E diventa ancora più complicato quando un sindaco e un vicario generale della diocesi di Rizziconi gli si parano contro. È tutto chiaro quando il religioso grida in chiesa: «Pregate per la Chiesa, che è sotto attacco dei magistrati e dei giornalisti del Quotidiano». Diventa quasi impossibile quando ci si trova isolati. È ancora Albanese a parlare «del diverso comportamento dei giornalisti e delle testate su fatti e inchieste di 'ndrangheta». Il primo caso riguarda la collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, una vicenda nella quale il ruolo dei media, il rapporto con gli avvocati e con i parenti dei mafiosi, è stato oggetto di diverse audizioni. La seconda investe la morte di Maria Concetta Cacciola, altra collaboratrice di Rosarno, costretta a ritrattare la propria testimonianza (la conferma delle condanne in Appello per i suoi familiari è proprio di ieri). La terza vicenda riguarda la morte del boss Alvaro di Sinopoli: «Il questore – dice Albanese – vieta il funerale pubblico. Dopo un paio di giorni, in prima pagina, un giornale regionale (Calabria Ora, ndr) ospita una lettera del figlio del boss che attacca direttamente don Pino De Masi, referente di Libera, che allora era vicario generale della diocesi, per non aver voluto far entrare il papà morto in chiesa, sapendo bene che mentiva, perché il funerale pubblico non lo vietò il vicario della diocesi ma il questore. È possibile che un giornalista abbia pubblicato una cosa di questo genere, manifestando, quantomeno, un'enorme ignoranza?».

IL RUOLO DELL'ORDINE Il cronista del Quotidiano spiega, tra l'altro, di aver segnalato al presidente dell'Ordine dei giornalisti della Calabria (Giuseppe Soluri, ndr) il comportamento dell'allora direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti, ma «la risposta è stata che lo stesso apparteneva a un ordine regionale diverso». La Commissione riporta anche la risposta del presidente dell'Ordine calabrese che, «audito sull'insieme delle vicende analizzate e sui risvolti che esse potevano avere sul piano della deontologia professionale, ha ammesso che poco si è fatto». Soluri ha ammesso che «l'ordine dei giornalisti ha, oggi come oggi, dei compiti molto limitati e sempre più limitati. Si può dire che ormai sia diventato semplicemente una sorta di notaio di quel che riguarda gli albi professionali. Quel poco che c'era in termini di autonomia, ad esempio il fatto di intervenire per motivi deontologici, è stato trasferito da poco ai collegi di disciplina». Ma quello calabrese, ha confermato, «...non ha mai istruito casi che riguardino questo fenomeno»

PUBBLICATO 01/07/2015





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