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La scuola e le funeste riforme d’assalto

Foto © Acri In Rete
Vincenzo Rizzuto
La scuola è strumento di base non solo di democrazia ma anche di sviluppo economico, che ha sempre più bisogno di conoscenze raffinate e competitive, per assicurare alla collettività benessere materiale e culturale in uno scenario dominato dalla globalità. Una società che non è in grado di far fronte alle sfide culturali internazionali è destinata inevitabilmente a soccombere in ogni campo della sua attività.  A questo proposito mi viene in mente un lungo intervento sulla stampa quotidiana di Massimo D’Alema, che da presidente del Consiglio dei Ministri, nella tredicesima Legislatura nel lontano 1999, affermava programmaticamente che non si poteva avere una società di serie A senza una Scuola di serie A; e   prometteva solennemente grande e nuova attenzione per una riforma in questo settore.
Da allora è trascorso quasi un ventennio e la Scuola invece di essere potenziata e risanata dai mali storici, è stata ancora di più impoverita e abbandonata a se stessa in una specie di lunga agonia. Lo stesso governo D’Alema, pur durato poco più di un anno, non ha fatto nulla, se non avviare il pernicioso finanziamento della scuola privata paritaria. In seguito, con gli altri governi che si sono succeduti fino ai nostri giorni, la Scuola pubblica è stata sempre più disarcionata, privata della sua identità, abbandonata a se stessa, nonostante i numerosi proclami e promesse dei suoi ministri, dalla  berlusconiana Gelmini alla renziana Giannini, che ha il merito, pare, di avere addirittura fatto innervosire con il suo ultimo decreto finanche la docente Landini, moglie di Renzi.
I vari ministri della Scuola, che si sono alternati negli ultimi decenni, hanno promosso infatti interventi di riforma gli uni in contrapposizione degli altri, facendo della Scuola una specie di terra di nessuno, in cui ogni governo ha operato a caso, senza una visione organica e sistematica, portando così l’intero sistema al collasso e ad una crisi quasi irreversibile, approfondita anche da tagli indiscriminati e micidiali ad ogni finanziamento di funzionamento e di strutture. E così in ogni scuola pubblica di ogni ordine e grado, mentre scriviamo, manca tutto: dal rotolo di carta igienica alla risma di carta e al toner per la stampante; gli edifici crollano a pezzi, e spesso gli operatori e gli allievi  hanno rischiato e rischiano ogni giorno di lasciarci la stessa vita per crolli di muri e di tetti. Per non parlare del corpo docente pagato con stipendi da fame e spesso supplente a vita.
In questa Scuola della miseria e dell’abbandono, fatto di indifferenza anche da parte della cosiddetta società civile, l’unica risorsa che i vari istituti sono riusciti ad accaparrarsi negli ultimi decenni sono stati i fondi europei, meglio conosciuti come PON, gestiti su scala regionale attraverso difficili e farraginose alchimie, in cui spesso solo i dirigenti-manager più scaltri sono riusciti ad intrufolarsi in una gara ad ostacoli. E in questa corsa ad ostacoli ogni anno le varie scuole hanno tentato e tentano di aggiudicarsi il maggior numero di “progetti”, ricorrendo alle iniziative formative più impensate, elaborate da specialisti nelle scartoffie interni ed esterni alla scuola. Ma tutta questa attività progettistica spesso è fine a se stessa, senza alcuna seria ricaduta formativa; anzi, a volte i vari docenti, che vengono designati dal dirigente-manager ad organizzare i PON, entrano in contrasto tra loro per la spartizione di qualche miserabile “fetta di torta” e finiscono per trasformare la scuola in un campo di battaglia, relegando così solo in un angolo e in attività aleatoria l’opera formativa curriculare nella sua più classica accezione, e si finisce, così, spesso per ignorare il fine ultimo della scuola, quello formativo. E con queste attività lasciate al caso, perché prive di ogni serio monitoraggio costante,  si sperperano troppo spesso enormi risorse della Comunità europea, come del resto avviene anche con altri fondi di cui si è occupata anche la magistratura.
Questo marasma della Scuola pubblica è stato anche acuito da alcuni atteggiamenti della Chiesa cattolica, che nel tempo ha operato per ottenere inopportunamente interventi legislativi, di destra, di sinistra e di centro, a dir poco scandalosi e devastanti per l’armonia di cui ha bisogno tutto il sistema formativo. Si pensi ai privilegi ottenuti dai docenti di religione, pagati dallo Stato e nominati dai vescovi. Questi docenti hanno ottenuto non solo l’immissione in ruolo e il voto di profitto con pari dignità di quello delle altre discipline, ma addirittura il riconoscimento giuridico ed economico di tutti gli anni di servizio pre-ruolo; mentre a tutti gli altri docenti vengono riconosciuti soltanto i primi quattro anni più i due terzi di tutto il servizio prestato non di ruolo. Siamo, come si vede, di fronte a veri e propri abusi e privilegi feudali di cui ci si dovrebbe vergognare. Ma lasciamo pure da parte queste quisquilie come le definirebbe qualche buon pensante, e torniamo al tema delle riforme, in particolare a quella approvata recentemente, con il DDL “La buona scuola”, dal Consiglio dei Ministri del governo in carica Renzi.
In essa, per quello che fino ad oggi è stato possibile sapere, visto che non è stata portata previamente all’attenzione di nessuno, ma è stata partorita nel chiuso delle stanze del potere, si ha la netta impressione che essa tende a generare nuove forme di precarietà per i docenti, destinati ad essere giudicati ogni tre anni da studenti, famiglie e dirigente, corroborato da uno staff di esperti e un mentore che, come un “cerchio magico”, dovrebbero far quadrato nella stanza del potere; vi si parla poi di scambio tra scuola e lavoro senza tenere presente a tal riguardo problemi strutturali come il trasporto degli allievi, che già da anni costituisce una delle piaghe più dolorose del pendolarismo studentesco nell’ambito del trasporto pubblico; e ancora, si parla della istituzione di un Istituto Tecnico Superiore post diploma, che dovrebbe sfornare tecnici di alto livello, come caldaisti, geometri, ragionieri, esperti di energie alternative ecc.
E tal proposito ci chiediamo, che fine hanno fatto le lauree brevi, che attualmente non danno nemmeno la possibilità di partecipare ad alcuna classe di concorso nemmeno nella scuola?
Una cosa è certa, l’intero pacchetto del decreto di riforma, nei suoi 39 articoli, appare fortemente sorretto da spirito di flessibilità, portata alle estreme conseguenze; e questo, noi crediamo, è una ennesima ferita alla Scuola pubblica, se è vero che il termine flessibilità deriva dal latino ‘flecto’, il cui significato più genuino è inginocchiarsi, prostarsi, rendere incerto il posto di lavoro, altro che jobs act e tutele crescenti.
La verità è che in questo tentativo di riforma c’è un chiaro ritorno alla vecchia manovra, già tentata negli anni passati dal Ministro Berlinguer, di introdurre nella scuola i famigerati valutatori della qualità formativa dei docenti. In quella occasione, se ricordo bene, università, associazioni varie e sindacati, non esclusi quelli confederali, si erano subito attrezzati ad offrire ai docenti corsi di formazione a pagamento con i soliti soloni del sapere.
Per fortuna i tempi erano diversi e il tentativo fu contrastato a furor di popolo e non andò in porto.
Ma i corsi e i ricorsi storici sono sempre in agguato quando la ragione dorme, ed oggi viene tentata di nuovo la trasformazione della scuola in azienda, governata dalla logica del profitto e della produttività, e si tenta di varare provvedimenti che uccidono non solo la libertà di insegnamento, tutelata dalla Costituzione, ma la stessa capacità di educare uomini liberi mortificando l’intelligenza e la capacità dei docenti, che in Italia da sempre hanno saputo sopperire alle squallide e miserabili condizioni in cui lo Stato li ha lasciati. Si tende così ancora una volta a ridurre la scuola ad una specie di agenzia per l’occupazione e la produzione, in cui l’allievo viene visto non come soggetto attivo e in continua crescita, ma come contenitore reificato da riempire con i più variegati e caduchi contenuti che il libero mercato di volta in volta elabora e richiede.
Al docente e allo stesso dirigente si chiede di rinunciare alla propria autonomia e inventiva, che sono alla base di ogni proficua azione formativa ed educativa, per farne continuamente, anche attraverso la minaccia della flessibilità, asettici funzionari governati da una pletora di adempienze burocratico-amministrative, che finiscono inevitabilmente per avvilire e fermare l’atto educativo nel suo libero, quotidiano svolgimento.
I rigidi schematismi, infatti, dei 39 articoli della bozza di riforma, partoriti in aridi ambiti ministeriali, ambienti che sono stati da sempre mille miglia distanti dalla scuola palpitante e reale dell’impegno di ogni aula scolastica, non miglioreranno certamente le sorti della scuola italiana.
Essa abbisogna invece di un profondo rinnovamento in termini di programmi, finalità ultime e strutture adeguate per diventare strumento principe di crescita umana e sociale, in grado di aiutare l’uomo nel suo divenire cittadino del mondo per affrontare le sfide del futuro.
E queste sfide si vincono rafforzando le capacità critiche dei giovani attraverso un cultura di base sempre più larga; un’esigenza, questa, che non traspare da nessuno dei 39 articoli della medesima bozza, i cui punti si snodano soltanto elencando fredde norme e farraginosi organismi come:
  1. CTS Centri Territoriali di Supporto;
  2.  CTI Centri Territoriali di Inclusione;
  3. START  Servizi Territoriali di Aggiornamento, Ricerca e Tecnologie;
  4. INPAV  Ist. Naz.le per l’Autonomia e la Valutazione scol. In sostituzione di INDIRE e INVALSI;
  5. CLIL  Metodologia per Rafforzamento offerta Formativa;
  6. Laboratori territoriali per l’occupabilità,
  7. CTI  Centro Territoriale per l’Inclusione;
  8. Figura del Mentore e dello Staff nominati dal dirigente;
  9. PNF  piano di Formazione triennale;
  10. PMS piano di Miglioramento delle scuole;
  11. PNSD  piano Nazionale Scuola Digitale;
  12. Curriculum dello studente;
  13. Carta dello studente;
  14. Statuto delle studentesse e degli studenti.
  15. Istituti Tecnici Superiori, cui si accede dopo il diploma. 
Tutta questa ridondanza di sigle, che fra l’altro vengono rimodulate ad ogni cambio di governo, creano nella scuola farraginosità e danni al percorso formativo, così come fa un elefante muovendosi in un negozio di cristalleria.
Non si è voluto capire ancora che la Scuola è il tempio dell’uomo, un luogo in cui gli equilibri, le strategie e gli strumenti dell’atto educativo devono fare i conti in ogni momento con il delicato e imprevedibile soggetto umano, che vive tra i banchi le fasi più delicate della sua esistenza.

PUBBLICATO 04/05/2015





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