Un acrese alla Maratona di New York
Giuseppe Pugliese
Gironzolando sulla terrazza, all'86mo piano dell'Empire State Building, mi viene da pensare che New York sia forse l'unica città in grado di rendere al maratoneta la dimensione dell'impresa compiuta.
Il ponte Da Verrazzano è un arco che sembra disegnato a matita, lontanissimo. Il resto del percorso lo puoi solo immaginare ruotando la testa in senso antiorario. Immaginare i vari boroughs, attraversati il giorno prima, e che ora sono solo una piatta, immensa distesa indistinta. Pochi i riferimenti: il Queensboro bridge, 1km e passa di supplizio, i due ponti che collegano il Bronx a Manhattan e l'improbabile rettangolo verde di Central Park. Ti viene da pensare che se ci fossi salito il giorno prima della corsa su quel grattacielo, forse la tua testa avrebbe dichiarato forfait in partenza pensando che sarebbe stato umanamente impossibile correre per tutto quello spazio infinito. L'elefante, si sa, lo puoi mangiare ma solo a piccoli pezzi. I piccoli pezzi te li crei in testa mentre corri, per evitare di pensare all'elefante che ti aspetta e ognuno adotta le proprie strategie. Mi sono detto: ma stai a vedere che se ragiono in miglia mi sembrerà di fare una gara da 26 anzichè da 42? In qualche modo funziona: all'inizio, quando sei ancora fresco ti sembra di essere penalizzato "ma come, ancora 9, solo 9? sto correndo da una vita!" ma tutto sommato accetti la cosa di buon grado. In fondo invece, quando gambe e cervello sono prossimi alla cottura, vedere il cartello delle 20 miglia ti aiuta a prenderti in giro e a pensare che fra 6 cosi (non importa cosa!) hai finito, e nessuna delle tue sinapsi, impegnate in tutt'altro compito, riuscirà ad accorgersi che di cosi (ovvero di km) ne mancano in realtà ancora 10, ovvero 50 e passa minuti di sofferenza. La preparazione non mi lascia tranquillo. Malanni muscolari vari e un po’ di indolenza mi avevano impedito di iniziare gli allenamenti prima del 5 settembre: meno di due mesi. "Uhmmm, un po’ pochini, la vedo dura" "Ma si, forse è meglio, ci arrivi più fresco" "L'importante è che fai allenamenti di qualità, non molti chilometri" "L'importante è cha fai volume, tanti chilometri". È una giungla di pensieri propri e consigli altrui, con il rischio, altissimo, di rimanerci a vagare e non uscirne più. Ad un certo impugno il machete e decido di optare per la qualità, anche perché, diciamola tutta, i lunghissimi mi annoiano non poco e mi lasciano sempre un po’ acciaccato. Il dolore alla coscia, che mi accompagna da mesi, insorge quasi sempre dopo 1h30 di corsa, speriamo mi lasci in pace. In compenso ci si è messo pure un fastidioso dolore sub plantare, che se non è fascite è sicuramente un parente stretto. Con questi pensieri, non proprio tutti positivi, mi ritrovo nell'autobus che all'alba del 2 novembre mi deposita in quel luogo di dannazione che si chiama pomposamente Fort Wadswort ma che in realtà è una sfigatissima area di parcheggio circondata dalle rampe del Ponte Da Verrazzano. Le prove fisiche e mentali della maratona iniziano in quell'istante, quando ti avvii insieme a migliaia di altri zombie vestiti da barboni a bivaccare in quella terra di nessuno per oltre tre ore. Tira un vento gelido ad oltre 20 nodi, la temperatura è appena sopra lo zero ma in compenso puoi sfondarti lo stomaco con tutto l'immaginario americano delle porcherie da ingurgitare; dai plumbei Dunkin Donuts alle barrette dai gusti e dalla consistenza improbabili. In realtà Dunkin Donuts una pensata buona l'ha fatta e distribuisce degli utilissimi berrettini di pile che in breve coloreranno di viola e arancione tutto il villaggio. Ci siamo. Manca un'ora alla partenza, abbandoniamo il riparo trovato dietro un camion UPS e ci inoltriamo nelle gabbie come vitelli al macello, non a caso le chiamano corral. Per fortuna ci sono ancora i bagni chimici all'interno, in condizioni indegne, ma funzionali, anche perché se ti beccano che fai i tuoi bisogni in giro ti prendono per le orecchie e ti squalificano. O almeno così dicono, anche se alcuni se ne infischiano e vengono regolarmente individuati e invitati, più o meno gentilmente, ad utilizzare i servizi. Ultimo step, si avanza verso la linea di partenza sul Ponte. Lancio nel cesto per gli homeless il mio vecchio giaccone da sci che mi ha salvato dall'assideramento e tengo su solo la felpa. "Buttala dopo il ponte, non te ne pentirai". Mai suggerimento fu più salvifico. Eccoci, siamo nella prima onda, primo corral, orange, partenza ore 9.40, subito dietro ai kenioti, agli etiopi, ai supermen della maratona insomma. L'adrenalina sale, il vento pure, partono una infinita serie di annunci diffusi da un classico speaker amerrekano. Applausi sempre meno convinti, tutti concentrati sulla partenza, che arriva quasi inattesa. Musica rock che pompa, brividi di emozione che scacciano quelli da freddo, un colpo di cannone e il viaggio, perché di questo di tratta, ha inizio. Via! Subito in salita, tento di limitare il passo, non mi sono riscaldato affatto, come nessun altro d'altronde; ma non ci sono ostacoli, nonostante le migliaia di persone, e si va subito a regime. Poche centinaia di metri e piombo nell'incubo totale: un vento trasversale quasi impossibile da reggere. Salgo, salgo, non è ripido ma salgo, e sulla mia sinistra lo spettacolo è insieme splendido e drammatico: i grattacieli di Manhattan sullo sfondo e in primo piano, sotto di noi, un'acqua scura, quasi nera, che ruggisce di spuma. Il vento urla, il ponte risuona, le raffiche ti fanno male. Penso sarà impossibile correre in quelle condizioni ma continuo a farlo, come tutti gli altri. Arrivato in cima all'arco del ponte una paratia mi scherma per qualche decina di secondi, ma la raffica che mi attende alla fine mi manda addosso ad un runner che in quel momento mi affianca. Un sorriso, qualche scusa reciproca e si prosegue. Mi convinco che siamo tutti matti da legare. Dopo 2 km inizia la discesa e l'allentamento della tensione sulle gambe già mi schiarisce i pensieri. Il vento inizia un po’ a calare e in fondo, al termine del ponte, si assesta su livelli più umani. Via la felpa, via il cappellino, rimango solo con i miei calzoncini, la t-shirt e i preziosissimi guanti. Migliaia di runners confluiscono, piano superiore ed inferiore del ponte si amalgamano, inizia l'immenso, interminabile, incredibile bagno di folla che vale tutti gli sforzi investiti per preparare questa maratona. Brooklin ci accoglie. Centinaia, migliaia di persone assiepate lungo il percorso. Colori, musica, canti, urla, cartelli, una emozione fortissima mi attanaglia la gola. Me lo aspettavo, ne parlano tutti, ma passare per davvero in mezzo a quelle siepi di folla è un'altra cosa. Lacrime di gioia mi scendono all'improvviso, non me lo aspettavo, il vento mi taglia viso, gambe e braccia, ma io vado avanti, gustandomi lo spettacolo, con l'unico rammarico di non poter leggere e ascoltare tutto con attenzione. Decido di bere a quasi tutti i ristori (uno ogni miglio). "Occhio che il vento e il freddo nascondono la disidratazione, bevi poco ma bevi sempre e integra". La folla e il mio passo sono costanti. Il delirio si interrompe solo quando il serpentone passa nel quartiere ebraico ortodosso di Williamsburg, dove la scena diventa surreale. Il nastro "police line do not cross" si flette nel vento laterale ma dietro non c'è nessuno. Uomini a spasso, con i loro cappelloni e le barbe da ortodossi hassidi ti ignorano. La donne, abbigliate come nei film di Woody Allen, portano a spasso i loro bambini in passeggini anni '60 e tentano di attraversare. Il silenzio è quasi imbarazzante, i runners si guardano l'un l'altro con aria interrogativa. Ma è solo una parentesi, la bolgia riprende, "run like you stole at the National Bank" recita uno dei tanti cartelli. Queens è il terzo "boro" (quartiere) della maratona e si conclude con uno degli incubi della corsa. Attacco il Queensboro bridge con in testa gli ammonimenti ricevuti. "Tieni duro, è il punto più difficile, passato quello è fatta". Ma manco per niente! Sono passato alla mezza in 1h 44min, in linea con le mie più rosee previsioni e la salita del ponte, al 25mo km, non mi sta pesando più di tanto. Passiamo nella parte coperta del ponte, il silenzio è interrotto dalle folate di vento, dallo scalpiccio dei runners e dai respiri affannati. Giù per la discesa, un paio di curve e siamo a Manhattan. La 1st Avenue è un vero e proprio strumento di tortura. Lunga una quaresima, circa 7km a perdita d'occhio, il vento contrario, salita e qualche falsopiano. Mi chiedo se arriverà qualche discesa lunga ma poi ragiono sul fatto che la maratona è in linea e che quindi le discese potrei anche scordarmele. E difatti me le scordo, tranne quelle dei due ponti rimanenti e altri pochi spicci. Le gambe iniziano a urlare pietà. È la mia settima maratona, so che quello è il momento nel quale iniziano le danze e decido scientemente che non posso rischiare il ritiro, non qui, non a New York. Rallento di qualche secondo al km, tanto non ho ambizioni cronometriche. Non qui, non a New York. Cerco qualche appiglio per il mio cervello, qualche giochino per distrarlo e fortunatamente ne trovo a bizzeffe. Bambini (e adulti) che ti danno il 5, cartelli spassosissimi. Uno mi è rimasto impresso, stupendo "Run like hell as this costs you more than 9$ per mile" (Corri forte perché questa corsa ti è costata più di 9 dollari a miglio). I ricordi a questo punto si appannano insieme alle gambe; mi rammarico solo di non potermi gustare in pieno lo spettacolo che mi circonda in questo bellissimo sole d'autunno newyorkese che ha deciso, per fortuna, di fare compagnia al vento. Bronx, Harlem, la 5th avenue, ma io penso solo all’arrivo, penso a Central Park. 23, 24 "cosi", ma che ne so, miglia, chilometri, ettometri, basta che si arrivi! La folla urla più forte, "You are Supermen" "You did it". Cerco di sorridere, urlo più della folla, digrigno i denti. Columbus Circle, dovremmo esserci, inizia il percorso nel parco. Eccheccavolo, pure il parco in salita, il prossimo che mi dice che le città americane sono piatte e monotone lo spedisco a quel paese senza preavviso. Ecco una discesa, una perla rara che mi concede un po’ di tregua, ma so che mi aspetta l'ultima, straziante salita. Curva, controcurva, transenne, eccoci! Ce l'hai fatta, il cronometro non esiste più, inizio a piangere come un bambino, ma solo pochi singhiozzi. Contegno! pensieri vari mi affollano la testa, spingo sulle gambe, cerco il dolore, sprinto, urlo, sprinto, non mi era mai capitato di arrivare con tutte queste emozioni in testa. Salita, l'ultima, ma non la sento. Urlano ma sento silenzio. Di urlo sento solo il mio, braccia levate e una liberazione che mi lascia senza un briciolo di energia. Il cronometro sentenzia: 3 ore 35 minuti 4 secondi, 5.06 minuti al km, quasi 12 km/h, mi scorrono nella mente i fotogrammi di un sogno da ragazzo che è finalmente diventato adulto. "Congratulations, you did it" e da quel momento iniziano le coccole, penso di aver cambiato pianeta. Un volontario ti mette la medaglia al collo, cavolo quanto pesa! Un altro la mantellina di domopak, un altro te la chiude con apposito nastro. Uno della Red Cross con la pettorina "red cross spotters" ti chiede se è tutto ok. Un chilometro di passeggiata per ritirare il bagaglio, inizio ad avere freddo ma sto iniziando anche a guardarmi intorno, i colori di autunno a Central Park, i prati che sembrano tutti campi da golf, i sorrisi delle centinaia di volontari che si congratulano. Una folata di vento mi solleva la mantellina e mi ritrovo due volontari addosso, uno che me la abbassa e un altro che mi mette un altro pezzo di scotch per chiuderla; li guardo e sorrido come un ebete. Gambe doloranti, scale della metro che sembrano create dalla Santa Inquisizione. Ma dove stanno le scale mobili? Intanto il giro d'orizzonte sull'Empire si è concluso. Oggi non c'è vento, fa anche quasi caldo. Continuo a pensare che se avessi visto il ponte Da Verrazzano il giorno prima della gara, così perso nel nulla forse le mie tattiche di contare le miglia anziché i km sarebbero valse a ben poco. Visto ora invece mi da la dimensione dell'impresa, mi spinge per la prima volta a levarmi di testa tutti i "ma se avessi fatto..." "ma se mi fossi allenato..." "ma avrei potuto limare qualche minuto..." e a farmi un sentito complimento, de core, come si dice a Roma: hai veramente un gran carattere! È un luogo comune la Maratona di New York, ne sono sempre stato cosciente, ma ho deciso di viverlo e solo ora posso dire che è stato uno dei momenti più belli e significativi della mia vita. Solo chi si è appassionato, come me, a questo sport meraviglioso potrà forse capirmi in pieno. |
PUBBLICATO 11/12/2014
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