“Voglia di emergere”, un racconto autobiografico con un alto messaggio morale e civile
Franco Liguori
“Voglia di emergere”, libro a carattere autobiografico di Massimo Conocchia, appena edito da “Calabria letteraria Editrice”, con prefazione dell’illustre italianista Pasquale Tuscano, docente emerito dell’Università di Perugia, è uno di quegli scritti che appartengono alla letteratura della memoria, a quello spazio letterario indefinito in cui tutto si confonde in una sinfonia di immagini, piani narrativi, linguaggi, dando all’autore l’illusione di fermare il tempo in una dimensione nella quale gli anni ormai passati ridiventano vivi e tutto scorre su un piano in cui non c’è più un “prima” e un “dopo”, ma l’eterno presente. Come egli stesso dichiara nell’introduzione, l’autore, avvicinandosi ai cinquant’anni, sente il bisogno di “fare un bilancio della sua vita”, di “fare i conti col suo vissuto” e decide di “raccontarsi”, perché – come afferma il filosofo rumeno Emil Cioran, da lui richiamato- - “scrivere è un enorme sollievo” “e pubblicare anche”. Ed è quello che fa Massimo Conocchia, che si sente “profondamente cambiato” rispetto agli anni giovanili, “più riflessivo e malinconico”. Ripercorrendo la sua vita, dalla seconda metà degli anni Sessanta (lo scrittore è nato nel 1965) ad oggi, l’autore delinea con pacatezza e in modo disincantato fatti e personaggi che hanno in qualche modo segnato il suo percorso di vita, “studentesco” e “politico” prima, “professionale” e “di marito e padre di famiglia” dopo. Ma il suo intento non è quello di autocompiacersi degli esiti importanti raggiunti in ambito professionale e umano, sia pure con grandi sacrifici, bensì quello di raccontare, attraverso la propria vicenda personale, una storia con una “valenza più vasta”, perché emblematica di un giovane del Sud, che, grazie alla sua tenace “voglia di emergere”, affronta con coraggio e determinazione, le più disparate avversità, pur di riuscire ad arrivare, contando soltanto sulle sue forze. E, alla fine, arriva alla mèta e ne è, a buon diritto, fiero.
La “storia” di Massimo, raccontata in prima persona, in una lingua che il prefatore Pasquale Tuscano definisce giustamente “immediata e colloquiale” e “sdegnosa dell’enfasi retorica e sentimentale” tipica delle opere autobiografiche, inizia negli anni Sessanta, precisamente nel 1965, anno in cui egli venne al mondo, ultimo di una “nidiata” di sette figli , da una famiglia di umili origini operaie e contadine, della cittadina di montagna di Acri, ai piedi della Sila, famosa per aver dato i natali allo scrittore Vincenzo Padula, che nel “Bruzio”, descrive con grande realismo, le miserevoli condizioni di vita dei contadini calabresi, nell’Ottocento. Raccontando la storia della sua famiglia, Conocchia non manca di intrecciarla con riflessioni sulla realtà sociale del suo paese, Acri, negli anni dell’immediato dopoguerra, allorquando i contadini, non potendo più vivere col lavoro della terra, lasciavano i campi e si trasformavano in muratori , carpentieri o falegnami. Interessanti riflessioni vengono espresse anche sulla situazione politica del Comune di Acri, retto, in quegli anni, da grandi figure di politici come i fratelli Spezzano (Saverio e Francesco) , che furono i protagonisti della rinascita del paese, personalità di quella Sinistra “gloriosa”, che concepiva la politica come impegno, missione per il riscatto delle classi lavoratrici. Vennero, poi, gli anni Settanta, e ben altri furono i “protagonisti” della Sinistra locale, non più ispirati dalla concezione “nobile” della politica, ma “più inclini a compromessi e personalismi”, a fare della politica uno “strumento per la realizzazione di mire e ambizioni personali”. L’autore non manca di fare un cenno alla “riforma agraria” voluta, subito dopo la Guerra (1950), dal ministro calabrese Fausto Gullo, non a caso chiamato “il ministro dei contadini”, una riforma che, tutto sommato, si rivelò del tutto inefficace, determinando, dopo pochi anni, una ripresa dell’emigrazione, che, sia pure con tanti problemi, ebbe il merito di “disinnescare probabili conflitti sociali” e “concorrere al miglioramento delle condizioni della gente del Meridione”. Il “dramma dell’emigrazione” è il tema del terzo capitolo del libro, che parla di una visita ad Ellis Island e al museo che racconta la storia dell’ immigrazione americana, un luogo che riempie di angoscia a pensare ai milioni di italiani che lì giunsero, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, “accolti freddamente e sottoposti a interrogatori e visite umilianti”. L’autore si sofferma su questo dramma vissuto dalle nostre popolazioni, che fuggivano dalla fame e dalla disperazione, sottolineando anche il contributo dato dagli umili muratori, fabbri, falegnami del Sud , alla crescita e alla “grandezza” dell’America. Nel quarto capitolo il racconto autobiografico di Conocchia si sofferma sugli anni della formazione, da lui trascorsi nel popoloso “quartiere delle palazzine”, dove, insieme a Silvio, suo amico del cuore, giocava al pallone, un amico sfortunato, che, dopo un periodo di lavoro in Svizzera, tornerà al paese, e morirà prematuramente all’età di 33 anni. Parlando della sua famiglia, “una famiglia operaia e dalle forti tradizioni di Sinistra”, Conocchia ricorda di essere stato allevato “mangiando pane e Gramsci, pane e Guccini, con qualche variante rappresentata dai Nomadi, De Gregori, e un mito ricorrente, quello del “Che”. Gli anni della formazione trascorsero, tutto sommato, “senza grossi problemi”, anche se con i limiti di una “condizione sociale non d’indigenza, ma umile ed economicamente fragile”. Dopo il liceo frequentato nella sua Acri, con non pochi sacrifici, per mantenersi allo studio (fece l’aiutante macellaio ed il pastore), arrivò il tempo dell’Università, con l’iscrizione alla Facoltà di Medicina dell’Università di Siena, nel 1984, e la laurea nell’A.A. 1990-91. Il racconto autobiografico di Conocchia non manca di narrare, un momento ancora più intimo del suo percorso di vita, quello che egli stesso definisce “una bella storia d’amore”, la storia del suo rapporto con Anna, “inizialmente compagna di scuola, poi amica, quindi compagna di vita”, “una donna dolce, profondamente schiva e riservata”. L’autore ricorda con parole di affetto e di riconoscenza anche i genitori: il padre minatore, “uomo molto attaccato alla vita, amante del buon cibo, del vino d’annata e della compagnia” e, la madre, che lo viziò e lo riempì di attenzioni, grazie anche alla sua condizione di essere il più piccolo dei figli. Degli anni universitari, trascorsi in una terra solare ed accogliente come la Toscana, l’autore ricorda che furono “anni intensi e carichi di voglia di fare”, caratterizzati non solo dall’impegno dello studio, ma anche da altre attività come la partecipazione alla vita politica e al dibattito sul futuro della Sinistra in Italia, la goliardia ed altro ancora. “Memorabile” fu la festa di laurea, nell’anno accademico 1990-91, soprattutto per “l’aspetto coreografico messo in atto dalla famiglia” e, ancor più memorabile, il momento in cui il padre, “impacciato ma felice”, smise il suo abituale rigore e gli si buttò al collo, abbracciandolo. Dopo il conseguimento della laurea, iniziò “l’impatto vero con la realtà” e la necessità di destreggiarsi con coraggio, per farsi strada in un ambiente “costellato da tante difficoltà”. Il suo sogno era quello di specializzarsi in Cardiochirurgia. Prima della specializzazione ci fu il matrimonio con la sua amata Anna (1994) e l’arrivo del primogenito Ernesto (1996) ; nel 1997 arrivò anche l’agognata specializzazione, a Siena, in Cardiochirurgia, conseguita brillantemente. L’anno successivo (1998) , con l’assunzione di Dirigente Medico di primo livello nel reparto di Cardiochirurgia dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara, arrivava, finalmente, per Massimo, la stabilità, anche sotto l’aspetto economico, e nel 2000 la famiglia si arricchiva con la nascita di una secondogenita. Tanti furono i pazienti calabresi, e acresi in special modo, che si sobbarcavano, nei primi anni, a raggiungere Massimo in Piemonte, per farsi operare da lui e godere dell’accoglienza rassicurante di una persona amica. E, a questo punto, l’autore ne trae spunto per denunciare le carenti condizioni della sanità calabrese e il conseguente disagio della nostra gente nel dover affrontare, come sempre, per curarsi, i pesanti “viaggi della speranza”, nelle strutture ospedaliere del Nord. Anche dei suoi “pazienti calabresi” Conocchia parla nel suo racconto autobiografico, riportando qualche curioso aneddoto, e dandoci, così, un affresco sociale della gente del suo paese. Interessanti riflessioni l’autore esprime nel capitolo XII, parlando del “calabrese” che, mentre una volta si connotava per il suo “carattere rude e fiero”, ora è diventato “più incline al compromesso” e disposto “a sacrificare princìpi e idee sull’altare del bisogno”. Conocchia non può fare a meno, però, di evidenziare, a fronte di questo mutato atteggiamento comportamentale, la grande “generosità” della gente di Calabria e la sua “naturale inclinazione all’ospitalità”. Gli ultimi capitoli del libro contengono riflessioni piuttosto amare sull’uomo in generale e sui rapporti umani, in riferimento al versante professionale della vita dell’autore, che parla della presenza in alcuni settori, come quello della Sanità, di un vero “feudalesimo”, inteso come rigida gestione del potere da parte di alcune ristrette oligarchie, che hanno bisogno di avere dei “sudditi” ai loro piedi . E Conocchia si spinge ancora oltre, parlando di “ius” dinastico-familiare, “in virtù del quale, l’unto per genìa deve passare davanti a tutti” e assume, pertanto, un “atteggiamento spocchioso e autoritario verso i potenziali concorrenti”. Questa denuncia sul sistema poco edificante e ingiusto del reclutamento del personale medico specializzato, non risparmia neppure il mondo della politica, anch’essa non immune da analoghi difetti e mali atavici, sia a livello locale che nazionale, come l’autore stesso ha potuto sperimentare personalmente nel 2006, quando fu candidato al Senato della Repubblica in Calabria. Fu allora che egli prese coscienza che quello dei partiti “è un mondo perverso e malato”. L’esperienza si ripetè nel 2010, e finì col suo definitivo ritiro dalla politica attiva, dove opera “una classe politica corrotta e perversa”, dalla quale è meglio tenersi alla larga. Senza, però, chiudersi in uno sterile isolamento, ma riversando il proprio desiderio di contribuire al miglioramento della società, nell’impegno sociale, e - perché no ? - nel ruolo privato di marito e di padre e in quello pubblico di medico e di cardiochirurgo. E’ quello che sta facendo Massimo Conocchia, che , scrivendo questo libro di piacevole lettura, ha voluto denunciare, mosso anche dal suo slancio sociale e dal suo costante impegno “politico” in senso nobile, “le difficoltà che trova chi (come lui), migliorando la propria condizione, cerca di meritarsi rispetto e stima nel proprio lavoro”. Il libro, che rivela pure conoscenza delle problematiche storico-sociali della Calabria e capacità di analisi politica delle stesse, affonda la sua origine anche nel bisogno dello scrittore di descrivere il suo mondo di provenienza e la sua “storia personale”, certamente “gratificante”, ma nient’affatto “facile”, una “storia” che insegna che “la vera forza sono le menti lucide, le capacità, lo studio, la formazione, l’onestà e la schiettezza”, con cui, “alla fine, si vince”. |
PUBBLICATO 09/12/2014
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