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ACRI SUL NEW YORK TIMES - Italo-americani alla ricerca del dialetto perduto

Foto © Acri In Rete
Joseph Luzzi
GIAMBATTISTA Vico, filosofo italiano del XVIII secolo, credeva che a mano a mano che una civiltà progredisce perde contatto con le sue origini creative. Un antico guerriero non avrebbe mai dichiarato «sono furibondo», ma avrebbe utilizzato la metafora «mi ribolle il sangue».
Il poeta Orazio nell’Antica Roma si spinse un po’ oltre: credeva infatti che quando le parole scompaiono si portano appresso i ricordi. Come le foreste cambiano fogliame ogni anno, così pure fanno le parole: nuove lingue «sbocciano e si sviluppano», ma soltanto dopo «la dipartita della vecchia progenie». Crescendo, mi sono reso conto che la lingua dei miei genitori stava avvizzendo e morendo come le foglie d’autunno. Erano immigrati negli Stati Uniti dalla Calabria alla fine degli anni Cinquanta e hanno continuato a parlare il dialetto della loro umile regione del Meridione d’Italia.
Ma la loro, ormai, era una lingua congelata nel tempo dall’esilio, piena di vocaboli che nella loro madrepatria non esistevano più. Dopo dieci anni in America, mio padre decise di comprarsi una bella automobile. In italiano un’automobile si dice «una macchina » e l’equivalente in dialetto calabrese è «‘na macchina». Ma nelle periferie pazze per le automobili dell’America postbellica, un immigrato come mio padre non poteva che rimettersi alla nazione che l’ospitava, così andò da un concessionario Chevy e chiese «‘nu carru». Il «‘nu» calabrese suona un po’ come «new», nuovo, e «carro» è proprio carro. In ogni caso, il concessionario sapeva che cosa volesse dire mio padre e gli vendette una Chevy Impala marrone del 1967. L’acquistò l’anno in cui nacqui io, il suo primogenito americano.
Il dialetto di mio padre s’infiorettava soltanto durante i suoi accessi di collera: «mala nuova ti vo’ venire» («che ti venga un accidenti »), diceva quando gli davi fastidio; «ti vo’ pigliare ‘na scuppettata» («che ti prendano a schioppettate»), e se lo facevi arrabbiare sul serio «ti vo’ brusciare l’erba » («che ti bruci l’erba sotto i piedi»). Tradurre queste espressioni improvvisate è difficile; meglio quindi immaginarle pronunciate da un uomo che avrebbe potuto sollevare un piccolo capanno degli attrezzi sul retro della casa.
Quanto a mia madre, aveva le sue erculee sfide linguistiche da affrontare. Nell’Italia che aveva lasciato non esistevano frigoriferi, e quando voleva conservare qualcosa sui blocchi di ghiaccio invece di ricorrere alla più comune parola «congelare» parlava di «frizzare», dal verbo inglese «freeze». Quando i suoi sei figli avevano la meglio su di lei, alzava le braccia al cielo e aggiungeva una vocale alla fine delle sue parole americanizzate. Così facevamo il bucato in una «uascinga mascina» (washing machine, lavatrice), pulivamo la moquette con un «vachiuma cleena» (vacuum cleaner, aspirapolvere) e bevevamo la limonata sotto al «porciu», il portico (porch).
Le battaglie che i miei genitori combattevano con l’italiano standard erano ancora nulla se paragonate alla guerra che ingaggiavano con l’inglese. A chi telefonava cercando i loro figli maschi rispondevano dicendo «she’s a no’ home»: io consideravo questa flessibilità di genere come un’affermazione della mia specificità, l’ingresso in un mondo che mi separava da tutti gli altri ragazzi dell’isolato. Noi eravamo diversi. La mia famiglia non aveva bisogno di venerare gli idoli degli immigrati di seconda e terza generazione, con i loro «mamma mia» strillati. Quando mio padre imprecava contro di me in italiano, lo faceva per la collera, non per la nostalgia.
Questa autenticità si estendeva alla tavola: i miei amici che avevano nonni siciliani parlavano di cibo italiano, ma i miei genitori lo producevano. Ogni anno preparavano centinaia di barattoli di conserve di pesche, pere e pomodori, galloni di vino rosso, e mucchi di cetrioli, piselli e patate. E poi, naturalmente, il fiore all’occhiello dell’orto: la zucca.
Un anno il quotidiano locale scattò una foto a mio padre e alle sue zucche lunghe un metro e mezzo che si erano aggiudicate un premio. Rendendosi conto di essere in mostra, mio padre rimase zitto tutto il tempo. Non comprendeva in che modo sfamare la famiglia potesse tradursi in una storia di vita vissuta. Non fraintendete: era fiero di aver coltivato un ortaggio così straordinario, e prima che scattassero le foto si assicurò di avere la riga divisoria dei capelli ben delineata. Aveva il volto rugoso e quando si fece avanti per ritirare il premio dovette appoggiarsi al suo bastone. Era sopra la sessantina, ma la vecchiaia gli era cascata addosso prima del dovuto, con un grave infarto che l’aveva lasciato paralizzato su buona parte del lato sinistro.
Mio padre fece fatica a spiegare al fotografo come avesse coltivato i suoi ortaggi. Per parlare di piante, tecniche e attrezzi poteva avvalersi soltanto di parole in calabrese. Ognuno dei suoi figli aveva raggiunto un certo livello di istruzione superiore e, così facendo, si era affrancato dagli stenti e dalla miseria che avevano costretto lui a lasciare l’Italia. A quel punto ormai noi figli ritenevamo le sue origini primordiali e remote. Egli aveva trapiantato o «trasferito» sia una famiglia sia un dialetto. E, dopo tutto ciò, si sentiva in diritto di parlare della sua zucca con parole sue. Più o meno in quello stesso periodo fece una colata di cemento accanto al suo orto, da utilizzare come basamento per un tavolo da picnic. Prima che si indurisse, firmò il cemento con uno stecco: «P. L. Nato Acri 1923». Pasquale Luzzi, nato ad Acri, Italia, 1923. Pochi mesi dopo, alla fine dell’estate 1995, morì. Nel necrologio, la passione di mio padre per l’orto fu segnalata come «hobby», parola che nel suo dialetto calabrese non esisteva.
Dopo la morte di mio padre, mi è capitato di sentirne la voce, ma non ho saputo in che modo rispondergli. Quando immaginavo di rivolgermi a lui in inglese, le mie parole suonavano pedanti e perbeniste. Rispondergli in italiano mi pareva non meno artificioso, e così pure quando cercavo di riesumare il mio dialetto calabrese o quando utilizzavo la grammatica da libro di testo che era innaturale per entrambi. Avevo moltissime cose da dirgli, ma non un modo per farlo, riflesso del nostro rapporto durante la sua vita. Senza la sue parole, stavo perdendo il modo di descrivere il mondo. All’improvviso i ricordi contavano più di quanto avessero mai contato, e non sapevo se avrei trovato le parole adatte a tenerli in vita.
Nel suo trattato sulla lingua, Dante ha scritto che anche se uomini e donne devono comunicare a parole, gli angeli possono parlarsi in silenzio. Parlare con chi è morto è la stessa cosa. Si impara subito che è meglio concentrarsi sulla persona cara che si è persa, utilizzando meno costrutti verbali possibile. Forse, il calabrese che parlo adesso con mio padre è un dialetto veramente morto, lingua che non cambia e non si traduce. Quando ora ripenso a lui, lo rivedo zappare nel suo orto, sterrando la ficuzza (in calabrese, l’amato fico) dal suo riparo invernale, per puntellarlo in vista dell’imminente primavera. Ma se dovessi esprimere a parole questa immagine, se la sua «ficuzza» diventasse «fico» in italiano standard, mio padre mi lascerebbe. Ed è a quel punto che il lutto si fa ricordo; ed è allora il momento di dire addio a una lingua e a una persona conosciute per troppo poco tempo.

Fonte: New York Times (Traduzione di Anna Bissanti)
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PUBBLICATO 03/07/2014





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