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“Estetica”. Non dis-turbate i greci

Foto © Acri In Rete
Cinzia Rinaldi Nocera
Vivo da più di un anno nella periferia di Acri che si affaccia sullo Jonio. Dallo stesso periodo seguo con interesse i diversi sevizi che offre Acrinrete, ma solo adesso ho sentito il bisogno di avanzare qualche considerazione, senza polemica e da semplice interlocutrice, riguardo ad un articolo apparso il 30 aprile scorso, il quale evidenzia le brutture e l’agonia di questa cittadina che mi ospita benignamente da qualche tempo. Una prassi, quella di sottolineare storture e deficienze della “nostra” comunità (che pure esistono), la quale accomuna la maggior parte delle riflessioni (spesso avanzate da intellettuali fuorusciti) che leggo sul vostro quotidiano e che da “forestiera” stento a comprendere.  Lo scritto, cui mi riferisco, porta come titolo: Acri Takeaway. Il bisogno di una estetica gratificante e l’autore è Angelo Minisci, il quale (mi si dice), anche se del luogo, risiede da anni a Firenze.
L’articolo si imbriglia in una palese confusione quando, dopo aver giustamente evidenziato un antico nesso tra bellezza e moralità, invoca: «l’architettura del tenere insieme etica ed estetica nella società odierna», cui fa subito seguito una citazione di Luigi Zoja la quale recita: «i greci, ai quali dobbiamo i due concetti si sarebbero opposti a questa separazione. Non avevano codici scritti che definissero bellezza e rettitudine [….], esse erano due diverse facce della stessa qualità, l’eccellenza». Ora, è del tutto manifesto che questo brano è totalmente fuori contesto, poiché per i greci il termine da cui deriva il concetto di estetica (aisthesis) aveva un significato molto più generale, il quale riguardava primariamente l’intero universo della sensazione e del sensibile, non la bellezza in quanto tale (tanto che per “bello” utilizzavano un’altra espressione: kalòs). L’“estetica”, quale disciplina o arte del bello, e la medesima terminologia per come noi la intendiamo oggi, nasce solo a metà del XVIII secolo ad opera di A. G. Baumgarten, che la ridetermina come riflessione sull’arte e sulla bellezza in senso lato; altrimenti, un secolo dopo, K. Rosenkranz non avrebbe potuto scrivere un libro dal titolo: Estetica del brutto. In definitiva, risulta assolutamente fuorviante assimilare la bellezza, per come la assumiamo attualmente, con il concetto greco di estetica.
Tanto più che per un greco antico, l’«eccellenza» (aretè), anch’essa richiamata nella citazione (ossia l’essere virtuosi), non riguardava solo le “facce” della bellezza e della rettitudine, ma si riferiva a qualsiasi evento tendente alla perfezione in ogni azione e condotta umana. Per cui, era “eccellente” un oratore che sapeva utilizzare l’arte della parola, ma era eccellente anche il ladro che si serviva al meglio della tecnica del derubare o l’assassino abile ad uccidere, come pure il guerriero che si distingueva valorosamente nel combattimento. A tal proposito, penso ci vorrebbe un minimo di rispetto per quella nutrita minoranza di individui che, per un motivo o per l’altro, ha preferito rimanere ad Acri e combattere nella propria cittadina contro un nemico (il politico di turno, l’amministratore, il “moralizzatore”, etc.) che tra l’altro non si è neppure scelto. Probabilmente, questi individui moriranno insieme alla propria città, come dice l’autore dell’articolo, senza essere rimpianti o ricordati da eroi. Tuttavia, agli occhi di un antico greco apparirebbero più eccellenti di coloro che hanno, comprensibilmente, deciso di distanziarsi da tale campo di battaglia, indebolendo ancora di più quella «coscienza comunitaria» di cui tanto parlano (senza alcuna proposta o azione concreta) e che fotografano sfuocatamente da troppo lontano.

PUBBLICATO 05/05/2014





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