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Don Diana e Ilaria Alpi: il potere delle parole

Foto © Acri In Rete
Giulia Manfredi
La parola, il racconto come mezzo non soltanto di resistenza ma soprattutto di cambiamento: è il messaggio che, dopo vent'anni ci arriva intatto da don Diana e Ilaria Alpi. Un prete e una giornalista, spesso annoverati fra i personaggi “scomodi”. Non ci si rende conto di quanto errato sia descriverli come tali. Definirli “scomodi”, significa, infatti, usare la meschina logica di chi li ha condannati. Significa rendere inconsapevolmente legittima, quindi più tollerabile la loro esecuzione. Le loro parole, il loro esempio sono stati, e sono ancora, invece, necessari, imprescindibili e sorprendentemente vivi.
Era il 19 marzo 1994 quando don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe, fu freddato da cinque proiettili, nella sala riunioni della sua chiesa.
A kilometri di distanza, in Somalia, il giorno seguente persero la vita in un agguato Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, lì per raccontare la guerra civile scoppiata nel 1991, in seguito alle insurrezioni contro il dittatore Siad Barre.
Due delitti, due storie, diverse per dinamiche e geografia, ma sorprendentemente simili.
Per amore del mio popolo non tacerò” è l’emblematico titolo del documento redatto da don Diana, un documento appassionato, mediante il quale la sua gente, la sua terra veniva a trovarsi faccia a faccia con una realtà percepita, ormai, come fisiologica e immutabile, e che intendeva far comprendere che quel sistema di valori malato su cui essa si fondava poteva ancora essere scardinato.
In terra di mafia, dove il silenzio è legittimato dalla paura, scegliere di non tacere è molto più che un dovere morale. E’ un atto rivoluzionario, che rompe schemi precostituiti, fatti di odio e sangue, della violenza che diventa ferocia. Implica perciò coraggio, che non è eroismo, ma voglia di perseguire il proprio obiettivo, di adempiere al proprio compito, nonostante la consapevolezza dei rischi che potrebbe comportare.
Lo stesso coraggio che costò la vita ad Ilaria Alpi. Per bloccare le sue parole si è tentato l’impossibile. Ma non è bastata la violenza, non è bastato il depistaggio delle indagini, né le verità celate: la parola è più forte, ed è per questo che la si teme, arrivando a uccidere, pur di fermarla.
A qualcuno non piacquero, infatti, le indagini che la giornalista stava svolgendo su un caso di mala cooperazione in merito a traffici illeciti di armi e rifiuti tossici, che coinvolgeva Somalia e Italia. Il servizio a riguardo, preparato per il Tg3 e girato insieme a Miran Hrovatin, stava per andare in onda: dovevano essere fermati. Li uccisero brutalmente e fecero scomparire nel nulla quel servizio, insieme ad un taccuino, a tre di cinque block notes, e a buona parte della lunga intervista al sultano di Bosasu.
Ma c’è di più. Dopo vent’anni e Ilaria e Miran non hanno ancora avuto giustizia. Movente, mandanti, esecutori, nulla è stato accertato.
Mariangela Gritta Grainer, membro della Commissione d’Inchesta sulla cooperazione allo sviluppo negli anni ’95 e ’96 affermò che ci fossero “dei soggetti che hanno interesse a depistare”.
Inoltre, come accadde per don Diana, accusato da alcuni giornali locali, poco dopo la sua morte, di essere un camorrista o di aver avuto rapporti con diverse donne, tra cui la cugina di un boss, si tentò di screditare e minimizzare il suo lavoro. Carlo Taormina, presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Alpi-Hrovatin dal 2004 al 2006 (lo stesso che nel 2001, durante il secondo governo Berlusconi, si dimise da sottosegretario al ministero dell’Interno per conflitto d’interessi, in quanto difensore legale di vari imputati per vicende di mafia) ha affermato che la giornalista “è morta a causa di una rapina. Era in vacanza, non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato”.
Nonostante questi squallidi espedienti, l’impegno di don Diana e Ilaria Alpi non è stato vano: è patrimonio di tutti noi.
E’ necessario raccontare le loro storie, mantenere vivo il loro ricordo, per comprendere che non c’è arma, violenza o sopruso più potente della parola.

PUBBLICATO 24/03/2014





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