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Una questione morale del pensiero oppure “fuffa”?

Foto © Acri In Rete
Angelo Minisci
Umberto Eco nei suoi Cinque scritti morali, muovendo dal concetto di etiche possibili, rileva come oggi la difficoltà nel porre il problema della morale sia soprattutto quella di trovare un punto comune a queste etiche. Nasce il "concetto di altro in noi", come base, punto di partenza del il nostro operare... "altro" come vicino ma anche come natura, pianeta in cui viviamo, generazioni future. Si costruisce spinti da bisogni per soddisfare i quali non si trovano cose offerte spontaneamente dalla natura. Più cresce la complessità evolutiva del soggetto più crescono i suoi bisogni: se all’inizio poteva bastarci qualcosa di circoscritto oggi vogliamo ancora di più. 
E questo porta  a riflettere sul senso del costruire e non solo dell’architettura e della sua durabilità. Un contrasto è ragionevole finché le due parti hanno autonomia, se pur diseguale, di azione e comportamento ma cessa quando una parte soccombe rispetto all’altra. Oggi è rimasto poco di naturale, incontrollabile per definizione se non per intercessione divina, è entrato nel numero delle cose di cui siamo direttamente responsabili. C’è stato un tempo in cui queste convinzioni erano confinate dentro un cerchio ristretto d’addetti ai lavori e la gran massa delle persone poteva tranquillamente ignorarle. Oggi ci siamo tutti dentro siamo tutti artefici del fare chi più vicino chi da lontane visioni. Siamo animali sociali che affidano il proprio progetto di vita alla rete di relazioni che sviluppa e comprende la società stessa ma il modello socio-economico che finora ha tessuto questa rete è cambiato profondamente: alla certezza, vista come orizzonte cui tendere e base su cui costruire la propria aspettativa di vita, di successo ecc.  si è sostituita l’incertezza. Ciò significa elaborare comportamenti che si sviluppano in condizioni d'imprevedibilità e rischio, non ci sono risposte e dentro questa incertezza esiste la sfida in tutti i sensi.
Il cuore del problema è che tutto questo “scontro tra le parti”  si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali, anzi sono venute meno le possibilità di crescita in una diversità delle idee. Questo  è il prodotto di un’organizzazione sociale che ha  generato  la desertificazione delle relazioni umane. Ecco dunque perché il nostro sistema  e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, , la vita urbana, la scuola, la sanità – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo. L’ amministrazioni locali, partiti e movimenti politici, imprenditori, genitori, medici….. noi tutti abbiamo la possibilità e la necessità di riprogettare questa realtà acrese vista invece in uno stallo di crisi “esistenziale” : coniugare prospettiva di visione condivisa e felicità ( per assurdo…qualcuno in una amarcord di memorie di come eravamo e cosa siamo) è necessario e possibile. La fiducia, come qualità richiesta per poter agire in assenza di certezze, costituisce forse la principale di queste attitudini. Ci si deve fidare, di sé e degli altri, per il solo fatto che non si sa come andrà a finire. Ciò implica anche un uso selettivo della fiducia, un bene prezioso che non può essere diffuso a pioggia.  Ogni progetto si basa sulla fiducia.
Progettare significa collocarsi ai nodi della rete (economica, culturale, politica ecc.) e contribuire a rendere più fluida la trasmissione di fiducia da un punto all’altro del sistema, essere disponibili a dare credito agli avversari e a rivedere la stessa definizione di avversario senza annullare i conflitti ma traendone occasioni per nuovi obbiettivi. Non si trasmette fiducia se non si ha fiducia in sé stessi: è forse la cosa più difficile da raggiungere. Sono convinto che imparare sia soprattutto imparare ad apprendere e che sia un processo personale e autonomo. Imparare non ha un inizio ed una fine. Di fronte ad una accelerazione dei processi di trasformazione, al tumultuoso sviluppo della tecnologia, ai rapidi mutamenti sul piano sociale si  vive una fase di impasse, non tanto perché non si progetta più oppure non si pensa  - anzi forse si progetta anche troppo - ma perché si opera in mancanza di una prospettiva ideale di trasformazione. La nostra epoca connotata dalla caduta delle ideologie ha rappresentato inevitabilmente anche una perdita dell'utopia della trasformazione.
Io non credo a questa inevitabilità ed è pericoloso che qualcuno sostenga questo. Così penso che porsi oggi il problema di un etica dello sviluppo sia innanzitutto porsi il problema dell'utopia, di una utopia della trasformazione.
Mi spiego meglio. Ritengo che il concetto di utopia oggi  sia sostanzialmente diverso da quello che ha caratterizzato l'inizio del secolo: l'utopia dei primi del Novecento era fondata sull'idea di grandi progetti di trasformazione, spesso traumatici, sostanzialmente rivoluzionari. Oggi, invece, il processo di trasformazione collegato all'utopia deve fondarsi sulla ricostruzione di sistemi di equilibrio. Anzi, forse, si può affermare che la vera rivoluzione è proprio costruire l'equilibrio.  In una società, come quella attuale, che vive una sorta di schizofrenia perché da un lato è evidente la volontà di costruire sistemi di integrazione tra uomo e natura, tra i diversi popoli, tra culture lontane, dall'altro verifichiamo una crescente tendenza alla distinzione, alla separazione, la sfida è realizzare un equilibrio tra i progetti di sviluppo e i problemi di natura ambientale,  non in una visione "buonista", oggi tanto di moda, ma come possibile ed irrinunciabile sviluppo della società.
In questo l'unico, reale, progetto di trasformazione è oggi un progetto di utopia. Un'utopia che potremmo  definire "temperante".  Siamo abituati a considerare da sempre questi due termini - utopia e temperanza - come antitetici: l'utopia contiene in sé il senso di dinamicità e di trasformazione, per alcuni versi anche irruenta, della realtà; la temperanza è il fermarsi per meditare, per riflettere. Ecco io ritengo che oggi dobbiamo porci l'obiettivo di un'utopia temperante come reazione ad un mondo in cui tutto appare accelerato...
Dobbiamo avere il tempo di sederci per pensare... l'uomo di progresso è l'uomo che pensa, che non accelera. Ed è la mancanza di consapevolezza che rende ostico comprendere la conoscenza sia il “valore aggiunto”, quel capitale che ci arricchisce, muovendoci verso l’altro.….in fondo nessuno è un isola e un luogo è fatto dalle persone e non solo dagli "artefatti. È forse una crisi dell'immaginario e del desiderio, piuttosto che una crisi finanziaria.  E’ bene essere pazienti uditori ma è meglio prendere appunti delle cose udite, viste e lette. La scrittura favorisce l’esercizio della memoria più della tastiera. Avere più memoria significa avere più repertorio d’idee cui attingere. Oggi prevale l’uso di affidare la memoria a strumenti esterni, in grado ormai di immagazzinare ogni istante della nostra vita. Ma non capaci, ancora, di saltare da una parte all’altra creando idee nuove.
Guardare e saper vedere usando insieme agli occhi anche il cervello. Una telecamera guarda ma non vede perché non ha cervello. L’occhio guarda mentre il cervello vede catalogando, confrontando, criticando, riflettendo e infine inventa. La maggior parte della gente non vede ma guarda soltanto, come una telecamera. Qualcuno vive di memoria breve, ci sono stati nella storia di questo paese i semi della trasformazione…forse oggi li definiremo come semi dell’ozio creativo, Eppure le tracce ci sono. Eviterei discussioni “volgare” solo per alimentare il rumore del niente ,ma proviamo a mettere insieme le cose e non importa se siamo o non siamo di acri in fondo siamo tracce. Come forse è questa piccola storia:
Ora al pari che le consonanti sono altre mute, ed altre semivocali, e mute diconsi quelle che stanno dietro alla vocale, e semivocali quelle che la precedono, cosí, salvo i beati ricchi che sono vocali, tutto il resto dei bipedi ragionevoli si parte in due classi. Compongono la prima i poveri in canna, gli artigiani, i contadini, i quali, perché, stando dietro al ricco, piglian l'aria e i modi da lui, e dissimulando i pensieri gli vanno a compiacenza, e l'inchinano, e gli fan codazzo, e soffrono in silenzio di esser messi in coglionella, possono addimandarsi consonanti mute. Compongono la
seconda i galantuomini di mezza falda, i quali perché, parte campando con l'industria, e parte con la professione, hanno qual piú, qual meno la balía di se medesimi, possono nomarsi consonanti semivocali. E sta bene sull'avviso che di queste persone semivocali, parecchie sono bilingui, né parlan mai secondo verità; e nei paesi dove han molti ricchi si mettono attorno all'uno per ficcare il naso ne' suoi secreti, e ridirgli all'altro, e cacciano biette tra le famiglie, e le dividono in fazioni, delle quali facendo canna ora a questa, ed ora a quella di tal mestiere si vivono. E peste cosí fatta possono chiamarsi semivocali liquide pel penetrare che fanno da per tutto, e per la loro instabilità.
In mezzo a tante consonanti il solo ricco è vocale; e tu per sollazzarti e ridere dell'una e dell'altre, osservale in una brigata. Colà il ricco è il registro d'un organo che leva, e rende il suono ai tasti, secondo si spinge dentro, o si tira fuori. Quanti lo circondano sono consonanti; e bada che in quel loro musicale concerto gli adulatori son quelli che rendono il suono un'ottava piú alto.
Che cosa dunque è il civile consorzio, o figliuol mio? Una parolaccia composta di vocali, consonanti mute, semivocali, e liquide. Ed ecco perché in tutti gli Abicí l'A è prima, e l'E è dopo; perché chi A' E', e chi non A' non E'…..( Vincenzo Padula )
Forse aveva ragione il Signor Palomar…l’apparire conta più dell’essere.

PUBBLICATO 18/03/2014





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