La Calabria: nunc non est
Angela Maria Spina
Le cronache della nostra storia recente sia essa dell’alta cultura o di quella corrente, tra alluvioni crolli e catastrofi, tentano di sdoganare l’immagine della magnifica Magna Grecia come possibile fonte se non ispirazione almeno di riflessione. Purtroppo la genealogia del fenotipo regionale della punta dello stivale, rimarca ed esalta i tratti di calabresi dannati dalla storia e dal tempo, i quali pur considerati parte integrate di un universo storico importante, quello cioè del Mediterraneo, dell’Ellade del classicismo e di Roma antica, tuttavia non hanno saputo definire, elaborare e forse determinare l’identità e la fisionomia dei loro stessi tratti e dell’importanza di un ruolo artistico culturale, che nell’inarrestabile flusso della storia è delittuoso negare o ignorare.
Della scandalosa storia recente che sta travolgendo le antiche vestigia, tutti dobbiamo vergognarci, anche quelli che calabresi non sono; e siccome ogni esperienza di verità è figlia dell’interpretazione, questo insano scempio che avviene con sistematica drammaticità -non certo solo a queste latitudini- è reso possibile certamente per pura ignoranza della sostanza. Noi cafoni del sud, ci siamo resi briganti di noi stessi, reticenti insicuri e stranamente sbagliati, incapaci cioè di tracciare incoraggianti, forse inattese, prospettive che non fossero solo quelle di un mediocre presente che ci rende sempre nani sulle spalle di giganti. Noi Calabresi impenitenti che non solidarizziamo mai abbastanza con i perseguitati ma di più con i persecutori. Noi terroni del sud che amiamo un sentire che poco appare o che poco contrasta, o poco colpisce, magari di striscio; amiamo le forme ibride, di contenuti culturali e soprattutto di valori contrastanti spesso inconciliabili. Con gli appetiti giangurgoleschi della nostra fame atavica, ci siamo resi falsi, banalmente retorici e sovente politicamente immorali, specie quando, talvolta paralizzati, preferiamo assistere inermi alla enorme quantità di soprusi e di violenze, che nonostante tutto siamo sempre pronti e disponibili a subire anche troppo spesso, senza adeguata indignazione o sufficiente reazione, decisive per svoltare. Alle calabre latitudini, infatti, ognuno matura sulla propria pelle, con ben precoce rapidità, come le molteplici declinazioni del Potere, nelle proprie variegate forme, alimentino un unico scellerato piano: neutralizzare le buone e le sensate idee, quelle cioè che impedirebbero di fare macelleria dell’arcaica identità monumentale, paesaggistica, storica e culturale; che a parole - ma solo a parole - riconosciamo essere come l’autentica e concreta espressione propria della legge, del coraggio e delle virtù della terra calabra. In Calabria s’impara anche a placare l’indignazione, a contenere impotentemente la rabbia e spesso a cedere al ricatto, perché da queste parti le progenie si educano da generazioni a cogliere un’unica essenza: quella predatoria. Questa terra calabra è terra di dolore e prostrazione in cui non c’è politica, n’è politici, non c’è formazione e neanche consapevole cultura, se si oltraggia la storia e il suo patrimonio, non solo di quel passato che è ancora seppellito, ma anche di quello emerso, che cioè non è in grado di creare né sviluppo né occupazione né lavoro; Molto, tanto produttivo lavoro, lo stesso che permetterebbe di disegnare diverse destinazioni di futuro, di sviluppo economico nella sua industria migliore: il turismo e la cultura. In molti questa terra calabra l’abbiamo immaginata così: straripante di libertà e di vita, come invece sembra non essere, defunta sotto il fango o sbattuta dalle onde del mare. In essa infatti non solo Non si alimentano le eccellenze, né la salute, la qualità di vita, le scuole e le infrastrutture o i servizi; in essa non c’è merito né razionalità, né alcuna fiducia in nessuno; in essa Non si sostiene né la bellezza né la vita. La Calabria ridotta a scheletro di sè stessa è solo una banale terra di mezzo, con tanta sconsolata bellezza, lasciata sbrindellare in una indifferenza malata - che è dell’Italia intera - che la annienta e annichilisce. Una Grande Bellezza, come la Roma di Sorrentino, che cristallizza e assolutizza l’ignoranza, ma che muore e si spegne se abbandonata. Una bellezza assassina che, come una medusa, annienta e distrugge. Una Violenta bellezza assassina, quella calabra, fatta di sopraffazione e arroganza, di imperturbabile ignoranza assatanata che vorrebbe mettere in vendita o all’asta l’anima dei suoi stessi calabresi, quella di donne, uomini e soprattutto giovani di questo lembo di paese; tutti quotidianamente in Guerra, a combattere la loro personale e silenziosa battaglia quotidiana, caparbiamente, come forse solo i calabresi - notoriamente teste dure - dovrebbero saper fare. In Calabria siamo rimasti o tornati in tanti; qui in troppi aspettiamo ancora di NON vedere negata la vita nel silenzio; pagato il silenzio prima ancora della dignità e della stessa libertà; inchiodati a fragilità inenarrabili, divisi tra bisogno e necessità. E i Calabresi possono però scegliere se continuare ad essere ancora ombre sospese dalla vacillante identità, che la fatica di un vivere troppo pesante riduce a nani o saltimbanchi, nel tempo immobile della storia; oppure scegliere, nel tempo che trascorre, di trasformarsi in impietose pietre bianche o ombre nere, eroi a metà; o in ossimori urlanti del disservizio e del “non-conteplato” di ogni settore, pubblico o privato; delle arti e dei mestieri, delle professioni e della vita, quella strana comune vita vissuta quaggiù in Calabria. Noi scegliamo se rappresentare i Vinti annichiliti di fronte al comune gaudio di un potere silente e oscuro, dalle mille forme insospettabili, che abbattono il merito, omologano i bisogni e incatenano le differenze, i meriti, le capacità. O se proclamarci i Vincitori sicuramente affranti ma non inermi, che urlano la rabbia o il dolore, il dissenso e forse la militanza civile con coraggio e tanta passione. Noi stessi scegliamo cosa rappresentare: se Emancipare cioè riscattare la dignità e la civica passione, da quel tempo sospeso in cui il passato, il presente e certamente anche il futuro servono per esaltare ed affermare la Memoria e l’identità della storia, oppure rappresentare qualcosa di diverso. La fragilità e la vulnerabilità, sono alimentate ad arte per rafforzare il potere criminale; è probabile che siano per così dire strumenti di pianificazione del controllo delle nostre vite, fonti possibili di speculazioni criminose, a cui lo Stato molto spesso non nega l’imprimatur specie quando la politica esita a comprendere la caustica visione predatoria, e non risolve né l’insano declino fonte dell’atavico male, né scioglie e libera le catene e le maglie della nostra culla-prigione, nella quale cediamo nostro malgrado all’inesorabile declino, che rende tutti eguali nella dipendenza da qualcosa. È dunque la società civile intera che deve abbracciare la sua terra e cominciare ad amarla e a prendersene cura. Solo dopo la medesima sceglierà i suoi nani, quegli stessi che debbono poter salire sulle spalle dei giganti del passato - oggi più di sempre - per dirci dell’orizzonte. La Calabria perciò ha bisogno di eroi normali: noi Tutti, che dobbiamo concorrere a salvarla per salvare noi stessi: gli insegnanti in prima linea, gli intellettuali, gli artisti ed i maestri, gli operatori sanitari, gli imprenditori, gli onesti; Tutte le nostre intelligenze civili pulite e creative, potranno salvarci. Tutti ri-generando idee e ri-profondendo prassi e modelli concreti. Ignoro se sia questa la proposta giusta, ma molti tra quelli che percorrono questa strada affollatissima di calabresi tosti sono già riconoscibili, perché appassionati e innamorati incondizionatamente della loro terra, tutti “volontari arruolati”, forze vitali della nostra società migliore, che malgrado tutto restano su questi territori disfatti, per mera scelta eroica, ai quali mai nessuno riconoscerà menzione al merito. Non so se sia possibile realmente lo spiraglio di un concreto cambiamento per noi calabresi. Ma poter considerare la possibilità o uno stile di vita nuova, per questa regione, quant’anche esile o fioco possa apparire, dovrebbe spingerci tutti ad agire come se tutto dipendesse da noi soltanto, per rappresentare l’ancora della nostra stessa salvezza, quella della nostra terra, e del nostro paese. L’amore, sosteneva Rilke, può vivere autenticamente solo in una mano aperta. Stringere la mano significa soffocare l’amore, ucciderlo. I calabresi hanno dunque bisogno di questo gesto e tipo di amore, per rigenerare la storia e pianificare il futuro. |
PUBBLICATO 11/02/2014
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