La famiglia come valore imprescindibile nel romanzo “Giacomino sulla luna” di Angelo Minerva
Anna Maria Algieri
Ho letto con vero piacere e interesse il romanzo “Giacomino sulla luna” di Angelo Minerva, edito da Book Sprint, che segue di pochi mesi la fortunata silloge poetica “I pesci rossi” pubblicata dalla stessa Casa Editrice, e l’ho trovato una miscela perfetta di racconto e fiaba. Si tratta, a mio parere, di una chiara e lucida riflessione sulla famiglia come gruppo di persone che interagiscono tra loro, ma nello stesso tempo sul comportamento del singolo individuo, messo di fronte a se stesso, alla propria interiorità.
L’ambientazione dei fatti narrati ci porta indietro nel tempo, negli anni Trenta del secolo scorso, nel Meridione d’Italia, quando ancora la famiglia era considerata un guscio sicuro e protettivo e riusciva a sprigionare quel calore umano che, come un balsamo salutare, attenuava i dolori dell’esistenza e rendeva possibile il superamento di ostacoli piccoli e grandi. Cosa accade però se alla famiglia viene all’improvviso a mancare un elemento portante? Cosa succede se in una famiglia all’apparenza perfetta in realtà non c’è dialogo, ma solo incomprensione e muto rancore? Giacomino, il giovanissimo protagonista della vicenda, vive entrambe le esperienze: rimasto orfano di padre, allorché la madre sta per risposarsi, viene mandato da Salerno, dove vive, in Calabria presso la famiglia di Elisa, amica di collegio di sua madre. Si tratta di una famiglia benestante, solo in apparenza serena, infatti in essa non regnano certo il dialogo e la comprensione. Il ragazzino però è alla ricerca disperata di un padre e crede di trovarlo nel marito della donna, Alfredo, uomo rigido e chiuso, che non riesce ad esternare a nessuno i propri sentimenti, la propria rabbia, il proprio bisogno disperato di affetto. Ed ecco che la mancanza di una reale conoscenza dell’altro, l’accumulo dei malintesi e la rinuncia al dialogo finiscono col creare un drammatico equivoco che avrà le sue tragiche conseguenze nell’epilogo della struggente storia. I fatti sono narrati molti anni dopo da Marco, figlio maggiore di Elisa ed Alfredo, coetaneo e compagno di giochi di Giacomino, in una specie di lungo monologo interiore che ha lo scopo di risolvere un antico trauma infantile. Un contenuto molto delicato, particolare e complesso, quindi, quello del romanzo “Giacomino sulla luna” e per questo motivo ho voluto fare delle precise domande all’autore, che ho contattato telefonicamente. Oggi l’uomo si può sentire solo nella società del benessere? L’uomo è sempre solo. Lo è stato in passato, lo è nel presente, nonostante gli strumenti di comunicazione di massa e per ultimi quelli informatici, e lo sarà ancora nel futuro. Intendo dire solo con se stesso, con i suoi pensieri, col proprio mondo interiore in cui si collocano i desideri, i sogni, le aspirazioni, ma anche le insoddisfazioni, i disagi, i traumi; condividerli è molto rischioso, perché ciò comporta un’apertura che rende indifesi e fragili di fronte al giudizio altrui. E poi non è mai stato facile comunicare ad altri la propria interiorità, la propria autenticità: la letteratura ed anche il cinema sono pieni di opere che trattano proprio il tema dell’incomunicabilità. Nel mio romanzo ho voluto mettere in risalto, tra le altre cose, anche questo aspetto cruciale dell’esistenza: la necessità di comunicare e al tempo stesso la difficoltà che spesso ciò comporta. Sono cambiati i ruoli nell’ambito familiare nella società moderna? In buona parte credo proprio di sì! I genitori, che sono di solito impegnati nel loro lavoro, o comunque intenti a risolvere i mille e gravi problemi della quotidianità, hanno perso autorevolezza nei confronti dei figli e concedono loro troppo in termini di libertà, spesso proprio per evitare di rapportarsi con loro nell’età più critica, quella adolescenziale. La maggior parte dei padri e delle madri non è preparata a svolgere un ruolo educativo efficace né ad offrire un modello valido a cui il giovane possa rifarsi. Mancano i divieti e soprattutto un atteggiamento coerente nei confronti della prole. Ed è ovvio che un simile comportamento, fuorviante e altamente diseducativo, finisca col ripercuotersi e gravare anche sulle dinamiche esterne alla famiglia, ad esempio, sull’esperienza scolastica. Ci si può sentire vittime del proprio comportamento? Oggi più che in passato si è vittime della fretta, della superficialità, la propria e quella degli altri. Ritengo che l’esistenza di ognuno, in buona parte, sia costituita dalla somma delle azioni, giuste e sbagliate, compiute nel corso degli anni. Si è sempre responsabili del proprio comportamento, quindi assumere atteggiamenti vittimistici è la cosa peggiore che si possa fare oltre che inutile e controproducente. Più che sentirsi vittime, quindi, direi che bisognerebbe sentirsi responsabili e cercare di rimediare agli errori, se si è in tempo, altrimenti cambiare decisamente modo di fare! A volte esageriamo con i nostri silenzi? Il silenzio non dovrebbe essere la prassi, dovrebbe servire alla riflessione, alla preghiera, alla cura dello spirito; dico questo perché penso che il silenzio non faciliti i rapporti umani, né aiuti a crearli, tanto meno a mantenerli vivi. Il silenzio di solito indica un’assenza, un disinteresse, un rifiuto del dialogo, una forma di esclusione o di autoesclusione. Certo a volte è preferibile al vociare indistinto, volgare e alle banalità a cui ci hanno abituato i mass-media. Quale suggerimento dare a chi continua a credere nella famiglia? Ritengo che la famiglia sia un dato imprescindibile della comunità umana e che sia necessaria alla società; è la cellula che la compone, le dà unità e compattezza. Quindi bisognerebbe continuare a credere in essa al di là di ogni altra considerazione. Naturalmente anche la famiglia è destinata a cambiare e spesso ci rendiamo conto che i cambiamenti non sono sempre positivi, però proprio chi crede ancora in questa istituzione deve fare di tutto perché essa continui a svolgere la propria basilare funzione educativa. La vicenda di Giacomino, il giovanissimo protagonista del mio romanzo, vuol essere emblematica di quanto una famiglia “malata” di rancori, colpevoli silenzi e pregiudizi possa nuocere a chi in essa vive e in essa dovrebbe crescere e formarsi nel migliore dei modi. Tutto questo lo spiega molto bene Paola Ancarani nella splendida Prefazione che ha scritto per il mio libro. Una famiglia che non accoglie, che non dà sicurezza, che non discute le scelte e che non si pone delle regole non fa che danneggiare e umiliare la componente più indifesa, cioè i figli, e trasmettere loro un’idea sbagliata dei rapporti umani e, in definitiva, dell’affettività. |
PUBBLICATO 14/01/2014
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