Ricordando Giovanni Faragasso sull’Agorà
Vincenzo Rizzuto
Ogni volta che ritorno in paese e attraverso la piazza centrale insieme
a qualche amico, nelle lunghe e calde giornate estive al profumo inequivocabile
degli amenti dei castagni, che ancora fortunatamente riescono a sopravvivere
alle colate di cemento sull’altura della “Caccia”, o nelle fredde giornate invernali
sotto un cielo minaccioso e greve,
sempre il pensiero va alla figura dell’amico scomparso, Giovanni Faragasso.
Egli, schivo e altero, calcava la piazza tenendo banco alla presenza di chiunque di noi gli capitasse a tiro. La sua voce, eccezionalmente chiara e baritonale, si imponeva con grande potenza oratoria, resa ancora più autorevole da puntuali e inattaccabili citazioni delle fonti, fossero esse di natura letteraria, politica o di cronaca nazionale. Allora succedeva spesso che l’interlocutore del “Professore”, intimidito da quel potente apparato dialogico, si lasciava andare in un silenzio quasi religioso e lasciava che egli dispiegasse tutta la sua opera paidetica. Quando invece il professore veniva contraddetto, rintuzzato e non seguito nei suoi stringenti ragionamenti, allora si scatenavano vere e proprie “battaglie”, che spesso, anche a notte fonda, finivano per scatenare l’ira di qualche povero cristo che, disturbato di soprassalto nel sonno, si affacciava dalla finestra e imprecava contro i molesti oratori. Sì, con Giovanni Faragasso l’Agorà ha vibrato per decenni sotto l’incalzare delle sue interminabili, accese discussioni sugli argomenti più svariati: fossero le grandi figure di Omero, Virgilio, Croce, Gentile o Gobetti e Gramsci, o le raffinate analisi di Eco, Enzo Siciliano o Asor Rosa. La cultura del passato e del presente di volta in volta veniva portata e discussa sulla piazza da Giovanni con la sua proverbiale raffinata eleganza, competenza ed estrema chiarezza, che consentiva di essere seguito anche dai non addetti ai lavori. E potevi sentirlo ragionare con la medesima passione su Pavese o sull’ultimo elzeviro dei grandi quotidiani indipendentemente dal loro orientamento ideologico. Il Professore, dopo avere letto quei pezzi, li ritagliava e custodiva gelosamente riempiendone ogni angolo della sua piccola ma dignitosa abitazione in via “Fosso”; e quella casa aveva finito per essere piena come un uovo di libri, di riviste e di giornali scrupolosamente selezionati. Ora Giovanni non c’è più e l’Agorà langue in un penoso silenzio, che ha tutto il sapore di abbandono, di omertà, di assuefazione alla colpa e all’apatia, di rinuncia ad ogni forma di protesta e di autenticità in una specie di mortale omologazione delle coscienze. Su quella stessa piazza oggi puoi soltanto ascoltare voci virtuali, che viaggiano su telefonini e tablet. Sono per lo più le voci dei giovanissimi che, indistintamente vestiti tutti allo stesso modo, si trascinano svogliati e stanchi di tutto, reduci spesso da noiose aule scolastiche, frequentate con altrettanta stanchezza e disinteresse, così come vuole, del resto, l’attuale sistema scolastico ridotto ad un informe colabrodo. La vecchia Agorà di Giovanni , in cui si discuteva di tutto nelle ore serali, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, non esiste più; con essa sono state azzerate dalla cultura e dalla economia globalizzata tutti gli altri luoghi di incontro: le botteghe artigianali, le sedi dei partiti, i circoli culturali, le parrocchie, i cinema e ogni altro luogo di socializzazione. Tutti questi presidi di vigilanza della democrazia, in cui si prendeva coscienza di se stessi e della realtà vicina e lontana, sono stati sostituiti dal piccolo schermo della Tv e del tablet, con i quali ci si informa, si compra, si fa amicizia, si parla con gli amici e si fa perfino “l’amore”, non importa se tutto è tristemente irreale, virtuale e da sogno avvilente. Adesso, sulle strade e nella piazza, sempre più spesso si incontrano persone che, come fantasmi, sembrano parlare con ectoplasmi attraverso l’auricolare e, separati dall’ambiente, chiusi nell’angusta “praivasi” dell’automobile. Giovanni, in questo nuovo ambiente così angusto e soffocante, certamente si sarebbe trovato a disagio; non aveva patente di guida, né tablet su cui leggere libri e giornali elettronici; egli era un cultore della carta stampata, amava sentire l’acre odore dell’ossido di piombo del quotidiano ancora intonso e bene allibrato, che sfogliava con antico stile attraverso movimenti precisi ed eleganti delle mani. E con la medesima maestria maneggiava i libri; ai suoi allievi nelle prime lezioni, all’inizio di ogni anno scolastico, insegnava innanzi tutto, con meticolosa cura, come aprire un dizionario, come tenerlo fra le mani. Il professore era un esteta nato, un “arbiter elegantiae”, laddove eleganza stava a significare non ricerca dell’inutile orpello ma stile di vita fatto proprio, improntato a serietà culturale e rispetto per i Fondamentali della democrazia; per questo si professava socialista e liberale nello stesso tempo, geloso, com’era, sia degli ideali di giustizia sociale che delle libertà individuali; valori, questi, che solo apparentemente collidono fra loro, e che in Giovanni Faragasso avevano trovato un interprete e alfiere indimenticabile, irripetibile, un Maestro di vita. Grazie, Giovanni, della squisita e preziosa amicizia che ci hai donato. |
PUBBLICATO 12/07/2013
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