Donne disabili, violenza e discriminazioni

Valentino Coschignano
Domenica 21 aprile, in Piazza Vincenzo Sprovieri, si è tenuta la manifestazione “Stop al femminicidio; scarpe rosse in piazza per fermare la violenza sulle donne.”
Innanzitutto, i complimenti, non di circostanza, a tutte quelle donne che con il loro impegno e la loro disponibilità hanno reso possibile un evento di questo tipo. Un plauso particolare a Lucia Paese, insegnante con funzione nell’area della disabilità, nonché, Artista con riconoscimenti internazionali. Persona sensibile e disponibile, sempre pronta a mettere la sua Arte a disposizioni del sociale e delle persone più vulnerabili. Mentre ero in piazza, e ascoltavo il susseguirsi degli interventi, il mio pensiero è andato a tutte quelle donne disabili che nella loro quotidianità vengono violate oltre che come donne, proprio per la condizione di persone con disabilità. Violenza, che arriva a vere e proprie discriminazioni multiple, i cui effetti devastanti minano l’autostima e genera sfiducia e insicurezza nella donna disabile. E non è un caso che il mensile “SuperAbile Magazzine”, rivista edita dall’INAIL, sul numero di marzo u. s. ha pubblicato un’inchiesta nella quale denuncia che sono ancora molte, troppe, le facce della discriminazione che le donne con disabilità si trovano a dover affrontare. "In un mondo costruito per uomini e gestito da uomini, essere donna e avere una disabilità comporta una vita di discriminazione multipla. Le donne disabili sono sempre e comunque donne, ma non sono mai riconosciute come tali. Non bisogna credere che in Italia la condizione di vita delle donne con disabilità sia sicuramente migliore rispetto ad altri Stati, né che la povertà economica e culturale in cui sono segregate le donne disabili sia tipica dei Paesi in via di sviluppo", denuncia Luisella Bosisio Fazzi, consigliere della Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità). "I dati ci dicono che le donne disabili trovano con più difficoltà lavoro, spesso devono rinunciare al desiderio di maternità e, in generale, subiscono più discriminazioni rispetto ai maschi. Sono invisibili perché le politiche di genere non influenzano la loro condizione e le politiche sulla disabilità non tengono conto del genere", insiste Luisella Bosisio Fazzi. Evidenziando che raramente le donne disabili sono "considerate in relazione alla femminilità, alla maternità, alla genitorialità, alla bellezza. Detengono il più alto tasso di non impiego, sono più spesso escluse dai sistemi educativi; normalmente vengono dissuase dall'avere figli. Spetta a loro la percentuale più elevata di violenze e abusi subiti, soprattutto alle donne con malattie psichiatriche, disabilità sensoriali e intellettive". Delle donne europee, circa il 16 per cento è disabile, e un rapporto del Parlamento dell'Unione denuncia che circa l'80 per cento di quelle istituzionalizzate sono esposte al rischio di violenza, spesso compiuta proprio dalle persone che dovrebbero prendersi cura di loro. E nella civilissima Germania, uno studio commissionato dal Ministero per la Famiglia, rivela che migliaia di donne con disabilità intellettiva, rinchiuse in istituti, hanno subito abusi sessuali. In Italia una riflessione specifica sulla violenza nei confronti delle donne disabili si è sviluppata solo negli ultimi anni e principalmente grazie all’apprezzabile lavoro svolto da organismi impegnati nel settore della disabilità. Incontri pubblici di sensibilizzazione, ricerche (anche comparative tra Paesi diversi), pubblicazioni e iniziative di varia natura hanno richiamato l’attenzione sui molteplici aspetti di una violenza sulle donne che in presenza della disabilità assume anche connotazioni peculiari, diverse da quelle che solitamente si riscontrano nelle testimonianze delle altre donne. Qualche esempio: la disabilità limita la possibilità di difesa in caso di aggressione. Il fatto di avere necessità di aiuto nello svolgimento di alcune attività rende queste donne più esposte a violazioni della propria intimità, della riservatezza e di altri diritti umani. In alcuni Paesi sono sottoposte a pratiche di sterilizzazione forzata, aborti selettivi, infanticidi. Spesso non vengono considerate (e trattate) come persone sessuate, che possano avere e destare un desiderio sessuale, ciò nonostante la cronaca mostri che frequentemente anche loro, come e più delle altre donne, sono vittime di abusi e violenze sessuali.” Afferma Simona Lancioni, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) in un articolo dal titolo: “Riflessioni critiche in tema di violenza sulle donne disabili” pubblicato sul sito superando.it In una società come la nostra, dove la sessualità è l'oggetto più frequente della comunicazione di massa, l'invisibilità a cui sono costrette le donne disabili in qualche modo è una forma di negazione del loro diritto alla sessualità. Sono quasi invisibili all'interno dei media, poiché il loro corpo è percepito dalla società come “poco desiderabile”. Spiega la psicologa valdostana Laura Elke D'Apolito, autrice di una recente ricerca sulle donne disabili. Di questo fenomeno, che a prima vista sembra paradossale, Emilia Napolitano, psicologa e psicoterapeuta, esponente di DPI Italia (Disabled Peoples’ International), fornisce una spiegazione che «è semplice e crudele allo stesso tempo: l’abuso e la violenza sessuale hanno più a che fare con l’esercitazione del potere oppressivo che con la libido e il piacere. Il potere oppressivo viene esercitato soprattutto sugli individui vulnerabili e la vulnerabilità aumenta se le persone vivono condizioni di emarginazione, esclusione, segregazione, dipendenza. E le donne con disabilità, più vulnerabili tra i vulnerabili, sono soggette a violenza, intesa questa, come violenza fisica, psicologica e violazione dei diritti umani da parte di uomini, donne e Istituzioni. La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata nel dicembre 2006 dall’ONU (ratificata da una ventina di Paesi della Ue) e ratificata dal parlamento italiano il 3 marzo 2009 con Legge n. 18, auspica che le donne non siano più vittime della "discriminazione multipla". Concetto, questo, "reso noto dagli studi di Kimberly W. Crenshaw in riferimento alle esperienze di discriminazione vissute dalle donne nere in America e che si è progressivamente esteso in altri ambiti", compreso quello della disabilità. I diritti violati pongono l'urgenza di un cambiamento culturale, di un cambiamento deciso nella mentalità comune. Perché i pregiudizi sono duri a morire. La tendenza sembra quella di considerare la violenza sulle donne un problema delle donne, al quale sono sempre le donne a dover dare una risposta, considerando, frequentemente e impropriamente, quello femminile come unico genere. Afferma ancora Simona Lancioni nel citato articolo: “Anche quando la violenza è agita da uomini sulle donne in quanto donne, non è richiesta una riflessione maschile sui modi di esprimere la maschilità. La violenza maschile, dunque, non sembra essere considerata un problema maschile. Questa propensione a parlare di violenza sulle donne concentrandosi sulle vittime, distogliendo lo sguardo dai suoi autori, non riguarda solo lo specifico mondo della disabilità, ma si registra in modo rilevante anche nel taglio degli articoli/servizi di cronaca proposti dai mezzi di comunicazione di massa. Le violenze e gli omicidi di donne compiuti da uomini vengono infatti descritti come gesti folli, drammi della gelosia, espressioni di una non meglio definita devianza, opere di fondamentalisti, stranieri, clandestini forgiati da culture diverse dalla nostra. Ma basta uno sguardo alle statistiche (Istat, 2009) per scoprire che le violenze più gravi sono più frequentemente agite dal partner, in particolare dal marito o convivente, e che le Regioni del Centro e Nord Italia hanno tassi di vittimizzazione relativi al corso della vita maggiori rispetto alla stima per l’Italia. Nella sostanza ciò che si delinea è qualcosa che si potrebbe definire come una “tragica normalità”: questi uomini non sono pazzi, né genericamente devianti, né estranei, e neppure espressione di un ipotetico ritardo culturale del Sud. Sono uomini qualunque, che appartengono ad ogni età, estrazione sociale, area territoriale. Il quadro si completa nel momento in cui diventa evidente che i modelli di virilità ancora dominanti nel nostro Paese – quelli di ispirazione patriarcale, che negano o sminuiscono la soggettività della donna - giocano un ruolo non neutro in questo scenario: in realtà gli uomini(e purtroppo anche le donne) che condividono lo stesso universo simbolico, lo stesso substrato culturale, in cui quella violenza si genera e si sviluppa, sono molti, ma questo è un tema troppo denso di implicazioni emotive, identitarie e politiche (nel senso di distribuzione del potere) perché le persone comuni accettino un confronto su tale terreno. Ciò nonostante una riflessione sul maschile è già stata avviata da diversi decenni sia a livello internazionale (i cosiddetti men’s studies), sia in Italia. La violenza nei confronti delle donne è un fenomeno complesso, al quale concorrono molteplici fattori, ed è improprio pensare che esso possa essere sondato in modo esauriente utilizzando un’unica chiave di lettura. Ciò è vero a maggior ragione quando si combina con la presenza della disabilità.” E’ possibile trovare nella riflessione sul maschile elementi utili alla prevenzione della violenza degli uomini sulle donne? E’ la domanda che si pone Simona Lancioni. Quesito non finalizzato a riproporre il vecchio e logoro schema che assegna agli uomini il duplice ruolo di aggressori e difensori e alla donna quello di oggetto passivo da aggredire o da proteggere. L’idea, è piuttosto quella di lavorare sulla qualità delle relazioni per evitare che il confronto e il conflitto tra i sessi diventi distruttivo ed evolva in aggressività e violenza. E’ il superamento delle reciproche diffidenze e rinunciando agli atteggiamenti di colpevolizzazione da una parte e, di rimozione/negazione dall’altra, che si arriva al riconoscimento e al rispetto delle rispettive soggettività. Lavorare per accrescere la consapevolezza, l’autostima e l’autoefficacia delle donne è indiscutibilmente importante (non solo in termini di prevenzione della violenza). Ma queste misure non affrontano la violenza sul nascere. L’azione di soccorso solitamente si attiva quando la violenza è in atto o è già avvenuta, quando la vittima è diventata tale. Il giusto (giustissimo!) inasprimento delle pene per questo genere di reati mostra, alla prova dei fatti, di non essere un deterrente efficace. Una riflessione tutta al femminile non può che esprimere una visione parziale del fenomeno in questione. Per sconfiggere la violenza sul nascere è necessario dunque indagarne le cause e coinvolgere nelle azioni di prevenzione anche chi, per ragioni storico/culturali/ambientali, è più esposto al rischio di farvi ricorso. Eppure, quest’ultimo approccio, non sembra riscuotere l’attenzione e la visibilità che meriterebbe, si lavora di più per costruire una buona difesa e molto meno per non avere motivo di difendersi. Nel panorama italiano i gruppi di uomini che riflettono sui modelli maschili si presentano come “un arcipelago sparpagliato” che mal si presta ad essere ricondotto ad unità e che presenta aspetti contraddittori e ambigui. Tra questi, ne indichiamo alcuni, e per chi vuole approfondire la loro filosofia lo può fare attraverso i loro siti internet: - Uomini 3000 (http://uomini3000.org); - Maschi selvatici (http://www.maschiselvatici.it); - Pari diritti per gli uomini (http://digilander.libero.it/uomini); - Maschio per obbligo (http://www.maschioperobbligo.it); - Uomini in Cammino (http://web.tiscali.it/uominincammino); - Maschile Plurale (http://www.maschileplurale.it). Quest’ultimo, è un gruppo attivo dagli anni Ottanta, che nel 2006 ha aderito pubblicamente alla manifestazione indetta dalle donne di «Usciamo dal silenzio» in difesa della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) con la seguente motivazione: «Anche noi uomini in piazza. E non per solidarietà. Non c’è sostegno da dare alla lotta delle donne; c’è da costruire insieme lo spazio per una comune e differente libertà. A partire dalla nostra esperienza» - Stefano Ciccone: Essere Maschi tra potere e libertà, anno 2009. Alla base di questa riflessione vi è il convincimento che i modelli tradizionali di mascolinità siano oppressivi per gli stessi uomini e che il loro superamento costituisca un’opportunità e non una minaccia per questi ultimi. Riflessione, che invita tutti noi maschi ad avviare nel nostro microcosmo quelle meditazioni necessarie per dare un fattivo contributo affinché questa nostra società vada sempre più verso le pari opportunità e il rispetto dei diritti umani. Diritti umani che devono tener conto, indistintamente, di tutte le persone, a prescindere dalla loro condizione, dal genere, dalla provenienza etnica, religiosa e su base di uguaglianza. E, per le persone con disabilità, la magna carta deve essere la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità. |
PUBBLICATO 01/05/2013

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