RELIGIONE Letto 4272  |    Stampa articolo

In ricordo di don Francesco Nigro

Postato da sac. Sergio Groccia
Foto © Acri In Rete
Omelia: funerali di don Francesco Nigro, cappellano militare, tenuta dall’ordinario militare per l’Italia Sua Eccellenza, Mons. Vincenzo Pelvi.
Acri - Parrocchia di San Giacomo, 20 marzo 2012

Carissimi,
con profondo dolore sono in preghiera con voi per chiedere al Signore di accogliere il nostro carissimo don Francesco nell’abbraccio del Suo amore. Anch’io mi lascio invadere da quest’ondata di gratitudine per la persona e il ministero di don Francesco; un padre, un fratello, un testimone e compagno di viaggio, conquistato e sedotto da Cristo, la cui forza e bellezza gli ha colmato, ma anche bruciato il cuore.
E noi, poveri di lui, e insieme ricchi di lui, ringraziamo Dio per il dono di averlo incontrato, di averlo amato, di averne goduto l’amicizia. E voglio subito ringraziare tutti coloro qui presenti, che gli hanno dato la cosa più importante, tutti coloro che gli hanno donato amore.
Venticinque anni di sacerdozio; una vita dedicata con passione alla Chiesa che si può racchiudere in tre espressioni evangeliche. La prima: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). La seconda: «Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). E finalmente: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). In queste tre parole vediamo l’animo dell’apostolato di Francesco, chiamato dal Signore e inviato per la gioia del mondo.
Uomo giusto, ora, è nelle mani di Dio e nessun tormento toccherà. Questa parola del Libro della Sapienza spinge a squarciare l’angoscia della morte e ci colloca in un’atmosfera di speranza, nella consapevolezza di essere chiamati all’immortalità. «Sappiamo, infatti, che quando si distruggerà quest’abitazione terrena, ne riceveremo un’eterna da Dio e saremo rivestiti della nostra dimora celeste» (2Cor.5,1-3). Il nostro fratello non è morto, ma dorme. Il suo dormire, iniziato in punta di piedi, è coperto di fede silenziosa. Eppure è sveglio, carico di luce, risonante di vita. Il nostro credo non dice solo parole sulla morte. Noi abbiamo, in realtà, un Dio che è morto, il quale ha preso con sé Francesco, ha gridato con lui sul letto della croce e l’ha reso simile a Lui nella gloria. E’ la nostra fede.
Certo il destino della fede, oggi come sempre, dipende dalla sfida della morte. E’ di fronte alla morte che ci si allontana dalla fede ed è con la testimonianza di fede, nonostante la morte, che si aiutano gli altri a credere.
Nel colloquio misterioso di questa Messa, mormoriamo nella solitudine del nostro animo: Signore considera la nostra sofferenza, Tu sei nostro Padre e noi ci abbandoniamo a Te.
Ora Francesco vive nella Terra promessa, da dove irradia luce per un sapiente cammino di comunione presbiterale.
Se vogliamo dare senso a questo momento di dolore, dobbiamo, noi sacerdoti specialmente, sentirci consummati in unum (Gv 17, 23).
Nella circolazione spirituale della carità vive lo spirito di comunione che dovrebbe alimentare il nostro stile di vita sacerdotale. Mi piace immaginare l’eredità che Francesco consegna: vivere una profonda unità nel nostro Clero.
Alimentiamo, allora, il senso comunitario, l’obbedienza, la solidarietà fraterna, la stima vicendevole, la comprensione reciproca, la serena concordia, la prontezza al servizio, la coscienza del bene comune, il rispetto semplice e sincero, la schiettezza del linguaggio, la comprensione cordiale, la capacità di perdono, la preghiera scambievole, la correzione discreta, l’amicizia fraterna e profonda. Francesco ricordava spesso come il Signore insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che non della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima frontiera che oltrepasseremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere.
La vita eterna è la cosa più seria e più forte che Gesù ha preparato per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall’amore di Dio (Rm 8,35-38). Questa certezza basta. Dio salva, questo è il suo nome. Salvare significa conservare. E nulla andrà perduto, non un affetto, non un bicchiere d’acqua fresca, neanche il più piccolo filo d’erba.
Una preghiera per i defunti, forse la più bella, invoca: «ammettili a godere la luce del tuo volto». I verbi della fede, adorare e lodare, cedono a un verbo umile e forte, inerme e umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia. La stessa fede cede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia, non nell’ansia del ragionamento.
La memoria di te, carissimo don Francesco, è una celebrazione della tua sopravvivenza, dell’immortalità della tua anima, anche se tanto velata di mistero; è un contatto con una comunione viva e commovente, con te, che, come dice la liturgia della Chiesa: «ci hai preceduto col segno della fede e dormi il sonno della pace».
In Cristo ti possiamo in qualche modo raggiungere, ora che tu vivi in Lui. In Cristo continua la circolazione dell’amore. Non è vano pensare così: è vero, è pio, è consolante. Riflettiamo e preghiamo per te, carissimo Francesco e tu continua ad amare e a pregare per la Chiesa di Cosenza e per la Chiesa Ordinariato che tanto hai amato.
Carissimo Francesco, ti affido al cuore della Vergine, Regina degli Apostoli, perché tu possa, con i tuoi genitori, gioire della gloria senza fine.
Amen.

PUBBLICATO 24/03/2012

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