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Intervista a Carlo Verdone.

Piero Cirino
Foto © Acri In Rete
Carlo Verdone è uno di quei personaggi che emanano naturalmente un fascino ammaliante, che riescono a catturarti con la loro semplicità ed eleganza.
Quando poi accetta di parlare di tutto senza rete e senza maschera, e di farlo anche quando tocchi le sue corde più sensibili, allora tutto diventa più vero.
Verdone ieri era ad Acri, per ritirare il Premio Padula. Ha stoicamente deciso di viaggiare in treno, in compagnia di suo fratello Luca, per poi raggiungere il centro presilano in auto da Paola. Accetta di aprire la giornata prendendo il caffé in nostra compagnia.
In tanti anni sei stato recensito, catalogato e definito nei modi più disparati. Proviamo a precisare meglio la tua collocazione nella storia recente del cinema italiano. Come si definisce Verdone?
Un pedinatore di italiani, un osservatore delle fragilità e delle debolezze. Ho sempre cercato di fissare un determinato momento storico per rilevare i suoi tic.
Ho attraversato tante fasi nella mia carriera e ora avverto la necessità di calarmi in un contesto "corale". Quindi non solo Verdone, ma anche un coro di attori.
Non è un caso che uno dei miei film più riusciti sia "Compagni di scuola" e non è un caso che gli esempi migliori della commedia italiana siano "corali".

Definiamo meglio le fasi della tua carriera…
Ne ho attraversate tante. La prima può essere definita del "virtuosismo", quella, per intenderci, di "Bianco, rosso e Verdone"; c'è poi, come del resto individuato dal programma delle proiezioni del Premio Padula, quella di "Maledetto il giorno che t'ho incontrato", di "deromanizzazione", cioè di un commedia europea; e c'è quella di "C'era un cinese in coma". Questa pellicola è stata ingiustamente considerata "minore". Il pubblico ai miei film era abituato a ridere di pancia, non di amarezza.
Qualcuno ha pensato che fosse un gradino preso male, ma è stato solo il bisogno che un artista ha di sterzare, anche di spiazzare il proprio pubblico. Poi ritorni a fare altre cose, non sei più guardato con sospetto e ritorni anche più irrobustito.

Cosa percepisci della Calabria? Ti limiti a studiarla sulla cartina o hai con la nostra terra altri legami, insomma cosa ti arriva?
Intanto la percezione di una terra importante, di storici, giuristi e artisti. Il problema è che qui non si girano film. Magari trovassi il soggetto adatto per ambientare qui una mia pellicola, sarei felicissimo. Ma devo trovarlo, non posso fare cartoline. Io qui ho partecipato a diversi eventi cinematografici: a Reggio Calabria, a Lamezia Terme e qui ad Acri. Ho sempre ricavato sensazioni molto positive.
A gennaio esce "Io, loro e Lara", il tuo nuovo film…
E' una bella commedia, molto ben strutturata. E' la storia di un sacerdote missionario in Africa che perde la fede. Torna a Roma dalla sua famiglia e scopre un "casino" di problemi. Poi arriva Lara, interpretata da Laura Chiatti, che complica ulteriormente le cose. Su questa storia del prete con una donna sono arrivate un sacco di e-mail di preoccupazione. In realtà, quella del prete che si innamora di una bella donna è copione scontato, quindi banale.
La pellicola alcuni importanti esponenti della Cei, del Vaticano, del mondo dei missionari l'hanno già vista. Sono entrati con una faccia severa e sono usciti abbracciandomi e ringraziandomi. Ho voluto trasmettere l'immagine di un prete come oggi dovrebbe essere. Il film è dedicato a mio padre e non posso averlo fatto male; non me lo perdonerei mai.
Appunto, tuo padre, scomparso nel giugno scorso. Al Premio Padula c'è una menzione speciale al merito per Mario Verdone, critico d'arte e ordinario di "Storia della critica e del film". Ma è vero che ti bocciò a un esame?
Si è tutto vero e questo un po' fa capire qualcosa dell'uomo.

Quali insegnamenti ti ha trasmesso sotto il profilo squisitamente professionale?
Lo stupore. Era un uomo affamato di sapere, un grande educatore.
Pochi istanti prima di morire ha chiamato accanto a sé mio figlio Paolo e gli ha detto: "tu devi portare avanti il nome dei Verdone. Non cercare il nome sul giornale, ma la ricchezza della dignità". E' morto da filosofo, da uno che ti lascia in eredità parole importanti. Per mio figlio e per me, che in quel momento ero nascosto alla sua vista, è stato un colpo al cuore. Uno che muore così è un grande uomo.





Fonte: "Il Quotidiano della Calabria" del 08-11-2009.

PUBBLICATO 09/11/2009

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