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Federalismo fiscale: una vera riforma?

Angelo Montalto
Foto © Acri In Rete
Egregio Direttore,
come noto è all'analisi del Parlamento Italiano il disegno di legge, d'iniziativa del Governo, contenente la delega in materia di federalismo fiscale in attuazione dell'art. 119 della Costituzione Italiana.
Si tratta della proposta legislativa volta alla "presunta" attuazione del federalismo come struttura istituzionale della nostra Nazione, iniziativa cui dovrebbe conseguire, secondo le intenzioni dei redattori del testo, un nuovo assetto di rapporti tra lo Stato centrale e le sue periferie (Regioni, Province e Comuni).
In merito, sgombro subito il campo da possibili equivoci in materia.
Ritengo che una riforma federale in Italia sia assolutamente necessaria, non solo per rivitalizzare istituzionalmente e politicamente intere aree del Paese, in particolare il nostro Mezzogiorno, ma anche per aprire un nuovo percorso nei "rapporti tra i poteri" (dello Stato e nelle relazioni tra questo, i suoi Enti, e i cittadini) che permetterà, spero, nel tempo, di realizzare un vero modello di partecipazione democratica alla vita del Paese.
Le esperienze comparatistiche in Europa, e non solo, sono la dimostrazione tangibile di come il modello federale possa essere funzionale ad uno sviluppo economico e sociale prolungato del sistema, dando prova della possibilità di intervenire efficacemente laddove fattori di crisi possano insorgere.
La vicenda dell'unificazione della Germania dell'Est con quella dell'Ovest a seguito della caduta del muro di Berlino è stata in tal senso emblematica: solo la scelta della struttura federale come modello comune alle due parti ha potuto permettere una unificazione reale e ciò in quanto, ferma la clausola di salvaguardia culturale dei Lander orientali, il Bund ed i Lander occidentali si sono accollati l'onere finanziario ed amministrativo di allineare la parte Est a quella Ovest secondo parametri di efficienza prefissati.
Nella sostanza, si è assistito a quello che insigni costituzionalisti hanno definito un nuovo volto del federalismo cooperativo.
Ciò premesso, non ritengo che il disegno di legge presentato dal Governo italiano possa assurgere, per il suo intrinseco contenuto, alla funzione di realizzare quella rivoluzione istituzionale, copernicana, tanto decantata quanto necessaria.
La proposta infatti, presenta forti elementi di criticità nel suo costrutto complessivo, mentre appare condivisibile su alcune indicazioni di principio.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, condivisibile è il principio di graduale transizione dalla spesa storica al "costo standard" quale criterio di ripartizione dei trasferimenti dal centro alla periferia, criterio che dovrebbe innescare, secondo le intenzioni del legislatore, un meccanismo di efficienza nelle gestione della res publica.
Inoltre, desiderabile è il meccanismo della premialità per la gestione virtuosa dei Comuni, nonché la prevista sanzionabilità per gli Enti che non rispettano gli equilibri economico-finanziari o non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni in relazione alle funzioni fondamentali.
Ma trattasi evidentemente di principi, la cui concreta applicabilità è rimessa ad appositi decreti attuativi da emanarsi nei prossimi anni.
Nella sostanza, invece, l'intera delega si palesa inidonea ad introdurre quelle riforme istituzionali funzionalmente necessarie al nuovo auspicato assetto costituzionale in senso federale.
Ed infatti, non si riesce a comprendere come si sia potuto partire dall'aspetto fiscale del federalismo senza intervenire preventivamente, e con legge, sulla definizione delle funzioni fondamentali dei Comuni di cui all'art. 117, comma 2, lett. p, della Costituzione Italiana.
A tali funzioni, in base al disegno di legge in itinere, dovrebbe essere legato il finanziamento per costo standard indicato.
Inoltre, ad oggi, non risultano determinati i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e di cui al medesimo art. 117, comma 2, lett. m.
In materia di funzioni fondamentali, l'unico tentativo è stato quello del disegno di legge sul Codice delle Autonomie, esperimento naufragato con la tragica fine dell'ultimo governo Prodi.
Ma a destare maggiore perplessità è il mancato inquadramento, in via definitiva, della ripartizione delle competenze tra lo Stato da un lato, e le Regioni, Province e Comuni dall'altro, così come la non caratterizzazione costituzionale del Senato come Camera delle Regioni.
A ciò si aggiunga l'attuale legge elettorale, che non contempla le preferenze per rimettersi alla grazia del Re nella scelta del candidato eletto.
Ritengo, infatti, che la legge elettorale con espressione della preferenza sia assolutamente funzionale ad un assetto federale dello Stato, in quanto lega il territorio al rappresentante in un rapporto quasi naturale, e per il quale si esplica il mandato stesso in funzione della tutela degli interessi della comunità.
Da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, manca un quadro completo sui costi di questa riforma, costi che sono necessari in quanto si presuppone che per la corretta attuazione della delega vi debbano essere informazioni dettagliate e precise sul mondo dei governi locali, dei loro sistemi tributari, della struttura e composizione della loro spesa.
Ma così ad oggi non è.
Vi sono, insomma, forti elementi di criticità sul disegno di legge presentato, criticità emerse durante l'iter parlamentare di discussione del progetto e su cui forze politiche come l'Unione di Centro hanno espresso voto negativo, mentre altre hanno preferito l'astensione.
In sostanza, partire dal tetto e non dalle fondamenta per costruire la casa, come ben evidenziato da alcuni leaders moderati, appare azzardato, perché l'esperienza italiana ha mostrato come ad un forte decentramento delle funzioni può corrispondere un maggiore impegno di risorse pubbliche a discapito dell'auspicata efficienza amministrativa.
Tale è stato il risultato delle leggi introdotte negli anni '90 da Franco Bassanini.
Inoltre, ad una maggiore autonomia tributaria degli Enti territoriali non sempre è corrisposto un corretto esercizio delle competenze attribuite.
Paradigmatico è il caso della Sicilia, la quale fin dagli inizi della riforma regionalista dello Stato ha ottenuto il diritto di trattenere praticamente l'intero prelievo tributario locale in cambio di un maggiore impegno di spesa in settori cruciali quali l'istruzione.
Il risultato è stato quello di trattenere le risorse non pagando le scuole.
Come dimenticare la politica successiva alla riforma fiscale degli anni '70, laddove il Governo poneva dei vincoli di bilancio ai Comuni per poi non farli rispettare, anzi procedendo a susseguente sanatoria dei deficit creati basando i successivi trasferimenti sulla "spesa sanata" e quindi premiando di fatto gli enti meno virtuosi?
E poi ancora.
Chi non ha in mente i deficit della gestione regionale della Sanità, che nell'ultimo triennio hanno indotto a dare ad alcune regioni miliardi euro di fondi aggiuntivi rispetto a quanto loro attribuito dalla formula di ripartizione del fondo sanitario nazionale, che è tecnicamente una buona formula?.
E per arrivare ai giorni nostri: abbiamo già dimenticato i 140 milioni di euro a Catania e i 500 a Roma erogati recentemente dal Governo centrale, o la sottrazione dei fondi FAS alle Regioni ad Obiettivo 1 per finanziare manovre di bilancio statale?
In definitiva, in assenza delle riforme strutturali delle Istituzioni e nella completa mancanza di un quadro di riferimento quantitativo condiviso dei dati disponibili su cui ancorare il federalismo da introdurre, la riforma potrebbe essere destinata a fallire.
Il fallimento travolgerebbe in maniera davvero catastrofica le Regioni, come la nostra, che più di tutte hanno accumulato nella storia gravi ritardi nella gestione efficiente della cosa pubblica.
Ed allora, bisogna fare i conti, in maniera responsabile, con la complessità dei problemi del Paese, partendo da una seria analisi dell'esperienza regionale e locale sinora maturata.
Altrimenti, il pericolo che si corre è quello di dar vita ad una riforma velleitaria, destinata ad aprire una fase di enorme incertezza. Ed a creare più problemi di quanti in realtà non ne risolva.

PUBBLICATO 21/03/2009

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