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Sanità, parla Grano: ''Muscoli e ossa più giovani, con l'irisina conquisteremo Luna e Marte''

Foto © Acri In Rete
Mara Chiarelli
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Un brevetto italiano e poi uno americano: l’irisina, in grado di intervenire su osteoporosi e atrofia muscolare. Una potenzialità scoperta da un’equipe di ricerca guidata dalla professoressa Maria Grano, docente al Dipartimento di Medicina di Precisione e Rigenerativa e Area Jonica (DiMePRe-J) dell’Università di Bari.
L’Irisina: ce la racconta?
«L’Irisina è una proteina prodotta dai nostri muscoli durante l’attività fisica. È stata scoperta nel 2012 ad Harvard ed è stata inizialmente descritta dagli americani come una molecola in grado di trasformare il grasso bianco nel più salutare grasso bruno. Si deve però ai nostri studi la scoperta del suo ruolo primario sull’apparato muscolo-scheletrico dove aumenta massa e resistenza ossea e muscolare».
In che termini?
«Nel 2015, dopo 3 anni di intenso lavoro della mia equipe abbiamo dimostrato che una concentrazione di Irisina molto più bassa rispetto a quella attiva sul tessuto adiposo, usata dagli americani, incrementa la massa ossea e muscolare rendendo lo scheletro più resistente alle fratture. Nel 2017 abbiamo dimostrato che l’effetto era ancora più marcato sull’osso osteoporotico e sul muscolo atrofico. È emerso che la somministrazione era in grado di prevenire e curare osteoporosi e atrofia muscolare in animali affetti dalle due patologie. Questi dati sono stati oggetto di concessione di brevetto in Italia, Europa e USA».
Dal 2000 coordina ricerche di Biomedicina spaziale per lo studio dell’osteoporosi e delle funzioni ossee in microgravità, in collaborazione con le Agenzie spaziali Asi, Esa e Nasa.
«La collaborazione del mio gruppo di ricerca con le agenzie spaziali è nata molto tempo fa perché il focus delle nostre ricerche, da oltre 30 anni, è la comprensione dei processi che portano al deterioramento dell’apparato muscolo-scheletrico dovuto all’invecchiamento e/o all’insorgenza di patologie metaboliche, neurodegenerative e all’assenza di gravità».
Ci chiarisca il concetto
«Gli astronauti durante la permanenza nello spazio subiscono effetti negativi sulla maggior parte degli organi e tra quelli più colpiti vi è l’apparato muscolo-scheletrico che per l’assenza di gravità va incontro ad una forte perdita di massa e resistenza. In microgravità l’osso riduce la sua densità minerale e sviluppa una condizione nota come osteoporosi che lo rende più fragile e a maggiore rischio di frattura. Ad esempio, dopo un mese di permanenza nello spazio gli astronauti perdono massa ossea pari a quella a cui vanno incontro le donne in post-menopausa in un anno».
Che fare allora?
«Considerando che le agenzie spaziali stanno progettando missioni di lunga durata (esplorazione della luna e il progetto Marte), la ricerca di biomedicina spaziale è proiettata verso l’identificazione di sostanze atte a prevenire i danni all’apparato muscolo-scheletrico, e non solo. Pertanto, i nostri progetti sono stati finanziati dalle agenzie spaziali fornendoci l’opportunità di condurre esperimenti a bordo della stazione spaziale internazionale. In uno di questi esperimenti abbiamo testato l’Irisina, dimostrando che è in grado di contrastare gli effetti negativi della microgravità sulle cellule ossee, riproducendo l’efficacia della molecola sull’osso dimostrata in esperimenti a terra».
Quali prospettive si aprono?
«I risultati ottenuti nello spazio ci hanno consentito di comprendere i meccanismi cellulari alla base dell’insorgenza dell’osteoporosi in assenza di gravità. Tuttavia, sono anche di grande rilevanza per i processi che si verificano a terra poiché la condizione dell’astronauta può essere assimilata ad una sedentarietà prolungata, condizione in cui possono trovarsi sia i soggetti anziani sia quelli giovani costretti a lunghi periodi di allettamento. Pertanto, l’interesse degli studi spaziali è duplice: per la salute dell’astronauta e per le importanti ricadute applicative per le patologie dell’apparato muscolo-scheletrico dell’uomo sulla terra. Nello spazio i processi di invecchiamento cellulare sono accelerati, quindi la ricerca nello spazio rappresenta un modello di studio di invecchiamento in tempo breve rispetto a ciò che accade a terra con l’invecchiamento vero e proprio in tempi lunghi».
Affascinante prospettiva.
«In aggiunta, i risultati ottenuti dagli esperimenti in cui abbiamo testato l’azione di Irisina sulle cellule ossee hanno evidenziato che tale proteina potrebbe rappresentare una contromisura per la perdita di massa ossea e muscolare degli astronauti durante le missioni spaziali nonché per i soggetti a terra affetti da osteoporosi e atrofia muscolare».
Quale sarà il prossimo step?
«Abbiamo in programma lo sviluppo di un farmaco/integratore a base di Irisina che possa essere assunto da tutti i pazienti affetti da osteoporosi e sarcopenia e dagli astronauti durante le missioni spaziali per contrastare gli effetti della microgravità sull’apparato muscolo-scheletrico. Per poter perseguire questo obiettivo è anche necessario mettere a punto un protocollo per la produzione industriale, per ottenere la proteina con un alto grado di purezza e costi contenuti. A tal proposito, nel 2024 abbiamo ottenuto un nuovo brevetto per la produzione della proteina in organismi di origine vegetale; questo rappresenta una valida alternativa ai sistemi tradizionali di produzione della proteina in batteria».
Per questa tipologia di studi occorrono fondi importanti. Come reperirli?
«I fondi necessari sono tanti e per reperirli stiamo partecipando sia a bandi nazionali che europei ed inoltre, stiamo cercando di attrarre gruppi di investitori e case farmaceutiche».
Che tipo di interesse pubblico c’è verso i suoi studi?
«La divulgazione dei nostri risultati ha generato grande interesse da parte delle associazioni dei malati con patologie muscolo-scheletriche. L’osteoporosi e la sarcopenia sono malattie di rilevanza sociale, soprattutto per il grande impatto socio-sanitario delle fratture conseguenti all’osteoporosi. Il 15-18% di tutte le fratture è dovuto a Osteoporosi. Oltre 200 milioni di persone, di cui 22 milioni solo in Europa, sono affette da fragilità ossea. All’osteoporosi si associa, quasi sempre, un concomitante deterioramento della massa muscolare scheletrica (Sarcopenia) che porta ad un elevato rischio di cadute, incrementando ulteriormente il rischio di frattura».
Quante difficoltà ha trovato?
«Le difficoltà sono state e sono numerose poiché l’Italia investe in Ricerca e Sviluppo meno della media Europea (1,4% del Pil contro il 2,1 dell’Ue). Tuttavia, partecipando a bandi competitivi, sia nazionali che internazionali, siamo riusciti ad ottenere i finanziamenti che hanno permesso di sviluppare in nostro progetto. Degno di nota è stato un finanziamento importante da parte della Regione Puglia. Un ulteriore supporto è derivato dalle numerose collaborazioni con altre Università italiane ed estere che ci hanno permesso di utilizzare strumentazioni necessarie per gli esperimenti e di cui i nostri laboratori non sono ancora dotati».
Parliamo di lei: dalla Calabria a Bari per essere finalmente “riconosciuta”. Si può fare?
«Sicuramente la mia è una esperienza di successo. Tuttavia, non posso trascurare i numerosi sacrifici che ho affrontato durante tutto il mio percorso. La mia vita comincia in un piccolo centro dell’entroterra calabro situato ai piedi della Sila (Acri), dove sono nata e ho condotto i miei studi fino al liceo. Sono cresciuta in una famiglia molto tradizionale nella quale i modelli ed i ruoli familiari erano ben definiti e dovevano essere rigorosamente rispettati. In particolare mio padre, calabrese “doc”, radicato ad una cultura maschilista, fortemente contrario alla mia scelta di studiare in quanto donna. Tuttavia, accanto a lui c’era mia madre, donna tenace e ribelle che mi ha sostenuta in tutte le scelte, e grazie al suo sostegno sono approdata a Bari dove mi sono laureata in Biologia. Durante il corso di studi nasce la mia folle passione per la ricerca, settore fortemente penalizzato dal punto di vista occupazionale, ancor di più per le donne. È stata durissima, anni e anni di volontariato, anni di precariato e dopo un decennio dalla laurea ho vinto un concorso da ricercatore nella Facoltà di Medicina e Chirurgia, entrando a far parte di un gruppo guidato dalla Professoressa Alberta Zallone, che è stata il mio mentore e verso la quale provo grande senso di stima e gratitudine. Lei ha creduto in me, mi ha sostenuta e così è iniziata la mia carriera accademica che mi ha portato allo stato attuale di Professore Ordinario di Istologia ed Embriologia presso la Scuola di Medicina dell’Università di Bari. Quello che più mi inorgoglisce è che oggi guido un gruppo di ricercatori, composto prevalentemente da donne, tutte appassionate e disposte a fare questo lavoro sacrificando spesso anche la vita privata».
Ai ragazzi, agli studenti pugliesi, cosa direbbe? “Restate in Puglia” o “scappate all’estero?”
«La mia è stata una esperienza di successo restando in Puglia e, con l’ottimismo che mi ha sempre caratterizzato, mi sento di dire ai giovani di investire in Puglia se è qui che amano vivere. Certo, non posso negare le difficoltà di fare ricerca in Puglia e nel Sud in generale, ma negli ultimi anni le cose stanno migliorando e il nostro territorio ha bisogno di giovani professionisti pugliesi e non. Inoltre, sono pienamente convinta che la ricerca non può avere confini e quando si segue una passione, gli obiettivi possono essere raggiunti in qualsiasi angolo del mondo».
In una parola la sua vita professionale?
«Passione».

PUBBLICATO 03/12/2024 | © Riproduzione Riservata





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