La morte è un racconto impossibile
Angelo Bianco
Sono tutti a dirmi “è meglio così, almeno ha smesso di soffrire” oppure “aveva finito la sua vita”, per altri, anche, “ci metterei la firma alla sua età” ma sono tutte bugie bianche, le ho dette anche io, prima.
È domenica sera, sono sotto il palazzo di Caiaro, quella che è la mia piazza, quella che è stata la mia vera casa, noi abitavamo al secondo piano, mi sento al sicuro, voglio ricordare, ne ho bisogno. Non c’è molta gente in giro, fa freddo, è una di quelle sere inutili alla vita che scorre, io, adesso, la mia, la sto vivendo così, inutile. Ci conosciamo tutti, tutti si fermano, mi stringono la mano, una pacca sulla spalla, un abbraccio, è una testimonianza d’affetto naturale, c’entra il dovere ma non è solo forma. Passa Angelotto, cronista dell’antico calcio locale, io lo ricordo così, è con il suo gruppo solito di semore, c’è Luigi Branca, c’è il prof. e il suo lungo cappotto nero d’ordinanza, si fermano anche loro, uno dopo l’altro, mi fanno le loro condoglianze. Il prof. prima non mi riconosce, poi si, mi viene incontro, mi abbraccia, le sue però non sono solo condoglianze. Mi racconta del suo dolore per la sua mamma che ha appena perso “io ti capisco, è un assenza incolmabile”. Fa fatica a parlare, poi diventa quasi uno sfogo, sembra cercare una sponda al dolore per averne dominio “mi manca l’aria, è un dolore che non sopporto, entro in casa e ho le gambe fiacche, non so farmene una ragione anche se era così anziana.” Ha il viso scavato, i capelli in disordine, sono sempre stati così ma stasera è tutta l’anima che è in disordine, è il ritratto della sofferenza. Gli amici lo chiamano, gli dicono di andare, lui forse avrebbe ancora voglia di parlare, mi saluta con una smorfia stanca. Io rimango impietrito di quanto non sapevo e di quanto comincio a capire anche dalle sue parole. È un uomo grandemente navigato alla vita, sua madre era una grande anziana ma ne ha parlato con il dolore acceso di chi è appena rimasto orfano ed è ancora piccolo da averne il cordone ombelicale pulsante di latte materno. Stasera siamo tutti più piccoli, io, mio fratello, Lorella, il prof. e le nostre mamme erano anziane e malate, “hanno smesso di soffrire” stringo i denti “è la vita!”, sono le mie cazzate migliori, mia mamma mi manca da morire. È trascorso un giorno o poco più, sono in macchina, guida Francesco, stiamo ritornando via alla nostra vita di prima, leggo i social, mi distraggo, c’è un articolo di Roberto Saporito su Acri In Rete, c’è la sua foto, è lui, è il prof. Leggo, sgrano gli occhi ma devo rileggerlo e rivedere la foto un’altra volta per capire che è tutto vero, il prof. è morto improvvisamente, Roberto ne sta scrivendo l’addio dal nostro paese, Acri, dove tutti lo conosciamo, era stato il prof. dei nostri giochi della gioventù. Ritorno un’altra volta di pietra a ricordare le sue parole, erano, forse, un segnale di resa? Penso d’impeto “è morto di crepacuore!” La morte è sempre un racconto innaturale, è sempre inaccettabile, per alcuni è un atto sublime di fede, beati loro, per altri ne è l’abiura terrena perché trascende la ragione umana, perché non ne ha mai per un bambino, per un figlio, per un genitore che muore. È il vento del destino che hai soffiato forte perché tutto, finalmente, si compiesse e, adesso, che tutto è finito, solleva per aria tutte le tue bugie bianche e ne fa polvere di cazzate sino, addirittura, per qualcuno, a rivolerne la vita ancora insieme, subito, riunendosi nella morte, subito, anche se, questo, sembra esserne solo un racconto, forse o davvero, impo |
PUBBLICATO 14/03/2024 | © Riproduzione Riservata
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