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Le nozze nell’antica Roma

Foto © Acri In Rete
Gaia Bafaro
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Qualche giorno fa dagli scavi di Pompei è emerso un carro cerimoniale, probabilmente destinato alla celebrazione di nozze, un prezioso e unico tesoro scampato per miracolo ai “tombaroli”. Proprio per questo motivo , abbiamo pensato di ripercorrere brevemente la storia delle nozze nell’antica Roma. Il matrimonio nell’antica Roma era un dovere civile, privo di amore. Il fine era quello di procreare nuovi figli per lo Stato di Roma e renderlo potente. Inoltre, si trattava di matrimoni combinati per accrescere il proprio prestigio grazie alla scelta di un buon partito, non era comunque esclusa la possibilità che un sentimento potesse nascere in seguito. Gli sposi, fino al momento delle nozze, erano dei perfetti sconosciuti, vi era un’enorme differenza d’età e quindi spesso non si godeva di un forte trasporto erotico, così come ci riferisce Sesto Pitagorico nelle Sententiae: “colui che ama con troppa passione la propria moglie, commette adulterio”. Per le pulsioni sessuali esistevano le schiave, le concubine e le amanti mentre le moglie erano costrette ad attenersi ad un’integrità morale molto rigida che prevedeva l’esclusione della sposa dalla gioia del sesso con lo scopo principale di riprodursi. Moglie era sinonimo di dignità e non di piacere. La donna era considerata “oggetto vivente”, una proprietà che passava dal padre al marito. Vi erano due tipologie di nozze “:cum manu (lo sposo aveva tutti i diritti sulla moglie) e “sine manu”( la sposa restava parzialmente sotto la protezione del padre),probabilmente l’espressione ancora utilizzata “vorrei chiedere la mano di sua figlia”, deriverebbe da queste due tipologie di nozze. Il matrimonio sine manu non aveva bisogno di ufficializzazione per ritenersi valido, bastava che i due coniugi volessero vivere insieme e formare una famiglia, mantenendo dei comportamenti corretti all’interno della società. Il termine matrimonio , invece deriva da mater/madre e munus/dovere e sottolinea l’inferiorità della moglie e dei figli al capofamiglia. Le cerimonie matrimoniali erano differenti tra aristocrazia e plebe. I nobili si sposavano in Senato tramite confarreatio (cum farro/con il farro), così chiamato perché i promessi spezzavano una focaccia di farro e la condividevano mentre un’altra metà era bruciata in onore a Giove; il popolo, invece si univa con la coemptio (cum emptio/con acquisto), letteralmente lo sposo comprava la moglie e nel rito vi era anche una bilancia e davanti a questa, ponendovi al di sopra del bronzo, l’uomo pronunciava tali parole: “Questa mater familia è mia per diritto dei Quirini e mi sia comprata con questo bronzo e questa bronzea bilancia”. Vi era anche una sorta di convivenza, si trattava del matrimonio per usucapione: una donna restava a casa di un uomo per un anno, in questo modo si capiva se si era fatti per vivere assieme e si testava la fertilità della coppia. Ci si poteva lasciare senza troppi danni e, in particolare, la donna poteva allontanarsi per tre notti dalla casa dell’uomo e ,automaticamente, l’usucapione si annullava. La dote per una fanciulla romana era importantissima, anche per quelle appartenenti alla plebe poiché, senza di essa si rischiava di essere considerate concubine; le doti erano annotate sulle tavole dotali e questa era un’ulteriore prova di matrimonio avvenuto. I Romani erano monogami e non era possibile sposarsi con una persona di un ceto sociale differente, vi erano poi dei riti di passaggio per avvicinarsi alle nozze soprattutto per quanto riguarda i ragazzi che, una volta raggiunta la pubertà si liberavano dalla toga praetexta (fino ad allora indossata) e offrivano la bulla che da sempre avevano portato al collo alle divinità di casa i Lares. A quel punto indossavano la tunica recta, completamente bianca e andavano a dormire. Il giorno dopo il fanciullo era pronto per vestire la toga da uomo e insieme al padre e ai parenti si recava in Campidoglio per iscriversi alle liste civiche e ricevere il nome completo di prenomen, nomen e cognomen; seguivano dei sacrifici al dio Liber, l’offerta di una moneta alla Dea Iuventas e un banchetto. Tutto ciò avveniva intorno ai 14/16 anni. Dall’altro canto, invece, dato che le fanciulle non facevano parte della vita pubblica, il loro rito di passaggio all’età adulta era direttamente il matrimonio che avveniva tra i 12 e i 14 anni. Anche nella tradizione romana vi erano giorni nefasti per convolare a nozze. Secondo Ovidio si trattava di quelli festivi,dedicati esclusivamente agli Dei (Calende, Idi e none di ogni mese), poi vi erano i giorni 13-21 febbraio, dedicate agli antenati e il 9-11-13 maggio in cui i defunti tornavano nelle proprie case a visitare i parenti. Quindi l’intero maggio era un mese tabù per sposarsi. Il momento più propizio era la seconda metà di giugno poiché i primi giorni del mese erano dedicati alla pulizia del tempio di Vesta. Il giorno delle nozze (da nubere/coprire con riferimento al velo della sposa), secondo le fonti avveniva in questo modo: L’ultima notte nella casa del padre, la fanciulla doveva indossare una tunica bianca (regilla) con una cuffia (reticulum)di colore giallo con sfumature arancioni, questo colore era detto “luteum” che è il colore delle nozze romane. Intorno alla vita invece, vi era il cingillum, una cintura di lana bloccata con il nodo di Hercules e che era un amuleto contro il malocchio e un augurio di fecondità(Ercole ebbe più di 70 figli), questa cinta sarà l’ultimo ostacolo da superare per lo sposo prima di appropriarsi del corpo della moglie. Tutti i giochi dell’infanzia venivano abbandonati nei templi di Venere o offerti ai Lari, in questo modo si diventava matrone. La vestizione della sposa avveniva dopo un bagno in una particolare fonte, i capelli erano acconciati in seni crines/sei trecce, come quelli delle Vestali,fissate in una ciambella dove sarà collocato il velo. Per acconciarli la schiava doveva utilizzare la punta di una lancia, questo rito non è ben chiaro, si pensa che abbia una correlazione con l’augurio di generare una prole forte e coraggiosa; poi la sposa veniva truccate e profumata e infine indossava una corona intrecciata di mirto,fiori d’arancio,maggiorana,spighe di grano alloro e ulivo come protezione contro i demoni maligni. Il velo è detto flammeum/fiammeggiante ed è arancione, lungo come un mantello, colore della folgore di Zeus, la sposa leverà il velo solo nel momento del matrimonio. Diversi erano i gioielli che ne adornavano il corpo, soprattutto quelli offerti dal fidanzato. Lo sposo invece era vestito semplicemente: una tunica bianca e degli stivaletti rossi per i nobili, neri per i senatori. La casa era profumata con incensi, addobbata d’arancione e con festoni di edera e mirto, nell’atrio le immagini di cera dette immagine maiorum,rappresentavano i volti degli antenati defunti che avevano reso importante il nome della famiglia. Il rito matrimoniale prevedeva la firma sulle tavole nuptiales alla presenza di 10 testimoni scelti tra amici e parenti, seguiva il sacrificio di un grosso ariete in casa della sposa, il momento cruciale della cerimonia restava tuttavia la dextrarum iunctio una stretta di mano al cospetto di una donna anziana sposatasi una sola volta. Il banchetto era celebrato sempre a casa della sposa a spese del padre, si era allietati da musica e prelibate pietanze. Giunta la sera la sposa veniva rapita dai commensali (probabilmente un modo per ricordare il ratto delle Sabine), un corteo di gente e musichi si aggirava per le strade della città e, lungo il tragitto, venivano intonati i canti fescennini dal contenuto molto spinto. Vi erano tre fanciulli vicino alla sposa, uno dei quali illuminava la via con una torcia sacra di biancospino, pianta che allontanava le maledizioni. Accanto alla sposa un’amica teneva in mano un fuso avvolto nel filo di lana, simbolo delle attività domestiche. Il corteo arrivava nell’abitazione dello sposo e la torcia veniva allontanata subito poiché avrebbe potuto causare la morte di uno dei coniugi se portata in casa. Lo sposo gettava delle noci ai fanciulli che avevano rapito la moglie ( probabilmente un rito che simboleggia la fine dei giochi da ragazzo) mentre la nuova padrona di casa ungevA gli stipiti con olio d’oliva, a questo punto vi era lo scambio della famosissima frase “Qui es? Ubi Gaius,Ego Gaia” che esprimeva la volontà di divenire marito e moglie. I tre ragazzi che avevano precedentemente rapito la sposina, la prendevano in braccio e le facevano varcare la soglia con premura che essa non inciampasse e non la calpestasse affinché si potesse iniziare bene la vita coniugale. Si tratta di un’antica usanza ancora valida nei nostri matrimoni. Seguiva un’offerta della ragazza ai Lari della nuova casa e un’ulteriore purificazione con acqua di sorgente e un tizzone acceso posto nelle sue mani. La prima notte di nozze avveniva su un letto cosparso di fiori di croco, ritenuti di buon auspicio, sul letto genialis (del genio) una sorta di angelo custode del maschio. La sposa pregava, a questo punto, una statua di Priapo e si sedeva sul suo fallo. Una pronuba( donna anziana) la svestiva e forniva consigli per la prima volta che risultava sempre e comunque traumatica. Esisteva anche il divorzio(da divertere/separare) che avveniva spesso tramite delle missive dette libellus divortii.

PUBBLICATO 13/03/2021 | © Riproduzione Riservata





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