Viaggio alla scoperta della magia popolare
Gaia Bafaro
Il malocchio o il cosiddetto “piccio” sono delle tematiche antiche ma ancora attualissime soprattutto all’interno di piccoli paesi, dove le tradizioni magiche sono più che mai reali e vengono tramandate accuratamente da madre in figlio.
Spesso, si tratta di persone religiose, “innocue” vecchiette o parenti che decidono di nuocere a qualcuno spesso per invidia o antipatia. Oggi faremo un viaggio antropologico alla scoperta delle pratiche magiche popolari della Sardegna. Fu l’autrice sarda Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, a fornire numerose informazioni sulla magia nera della regione, un esempio è visibile in una delle sue novelle dal titolo: “zia Jacobba”, dove la protagonista crede che la parente Chianna sia morta a causa di un maleficio: “I giorni scorrevano tetri e lenti, in una profonda miseria di pane e d'affetti. E il dubbio che Chianna fosse morta per forza di qualche malefica magia, metteva una continua febbre nelle pupille della povera donna. I sortilegi per il danno o la morte delle persone odiate si eseguivano con statuette di sughero, flagellate di chiodi e d'aculei, e collocate in luogo sotto il quale o sopra il quale la persona presa di mira passasse. L'effetto era sicuro e terribile: per magico incanto i chiodi e gli aculei pungevano il corpo del malcapitato, causando malattiae morte. Ritrovando la magia e disfacendola, la persona poteva salvarsi; non così se non veniva ritrovata o, se ritrovata, gettata sul fuoco senza estrarne i chiodi. Negli ultimi giorni della malattia di Chianna, qualche pia persona aveva insinuato il dubbio d'un sortilegio. Ritornata nel suo paese, zia Jacobba pensava, più che a riprendere una vita ormai rotta e disfatta, a scoprir la malìa e vendicarsi.” Per quanto riguarda le magie d'amore, le fattucchiere esperte utilizzavano ingredienti come: sperma, capelli, unghia e sangue mestruale e li mischiavano con cibi come il formaggio. Le streghe sarde sostenevano che bisognava dare da bere ad una persona dei peli delle parti “vergognose” di una donna ridotti in polvere per farsi amare. Per avere dei rapporti sessuali con la persona desiderata, bisognava indossare sacchetti di erbe conosciuti come amadas o due foglie di valeriana maschio e femmina legate assieme con seta verde o di altri colori. Queste operazioni dovevano essere svolte con orazioni alla luna o alla prima stella della notte. Diffusi erano i nuus, nodi utili per le ligaduras o legature. Si facevano dei nodi ad una cordicella o ad un altro materiale flessibile mentre si ripetevano formule magiche, questo rito svolto durante i matrimoni, procurava infertilità o impotenza di coppia. Per quanto riguarda i malefici, il più comune in Sardegna era l'espidda. Una cipolla intagliata con sembianze umane su cui si conficcavano spilli per auspicare gravi malattie e conseguenze letali, il rito era compiuto con tre candele rese nere per mezzo della pece ed un martello che serviva per conficcare i chiodi. Per annullare la magia nera si ricorreva a teschi, terra di cimitero ed ossa di cadaveri profanati. Nei rituali nefasti erano coinvolte vergini che, mentre si compiva il sortilegio, dovevano fissare un recipiente trasparente pieno d'acqua. Si recitavano brebus, parole magiche con il potere di incidere su ciò che è accaduto o cambiare il corso di ciò che sarà. Queste formule erano custodite gelosamente e la Deledda ne riporterà un esempio nella novella “Le Tentazioni”, dove zio Felix al cospetto della luna, recita i brebus per guarire il suo bestiame: “Appena la luna nuova apparve come una piccola barca d'oro navigante fra i rosei vapori del tramonto, al disopra di Monte Urticu, egli pensò di recitare i berbosper le vacche malate. Le riunì tre sere dopo, vicino al fiume. Antine assisteva alla scena. La notte era appena calata: la luna nuova scendeva dietro gli oleandri, l'acqua del fiume aveva lunghe scie d'argento pallido, e il cielo aveva la stessa purezza dell'acqua. Che pace, che dolcezza profonda! Le vacche, quasi tutte rosse, oscure dal lato che la luna non illuminava, si leccavano le piaghe, sbattendosi nervosamente la coda fra le coscie. Zio Felix si tolse la berretta, si scalzò, si segnò tre volte. Aveva nella mano destra, fra il pollice e l'indice, una piccola falce, o meglio un coltello in forma di falcetto. Sul petto, al disopra del gabbano, gli pendeva il mazzo delle sante reliquie, appeso al collo con un cordoncino unto. Egli sembrava inspirato: quando sollevava il volto verso la luna, i suoi occhiali brillavano come due enormi occhi di giavazzo. Appoggiato ad un oleandro, Antine guardava; altre volte quelle cerimonie l'interessavano; ora ne provava quasi disgusto, sprezzante e ironico.” Le parole magiche sarde erano recitate contro il malocchio e venivano insegnate in segreto, affinché non perdessero efficacia. Solitamente le anziane stanche che perdevano il loro potere e non potevano più esercitarlo, le tramandavano, alcune dicevano di avere ottenuto tale dono direttamente dal diavolo. I brebus hanno origini pagane ma nel tempo sono stati cristianizzate, nel mezzo delle formule, infatti, spiccano anche nomi di santi. Si tratta di cantilene impenetrabili a cui la natura è costretta ad obbedire e l'uomo entra in contatto con essa senza intermediari, ci si faceva il segno della croce e la formula veniva recitata nove volte. Sul potere della parola sarda, Max Leopold Wagner scriveva: “si usa per indicare gli scongiuri, per allontanare i fulmini, per ritrovare le cose smarrite, per fugare i diavoli e i dolori, per far arrivare le pallottole al cuore del nemico.” L'officiante dei brebus, godeva di riconoscenza e prestigio in tutta la società. |
PUBBLICATO 23/09/2020 | © Riproduzione Riservata
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