Il margine che si fa centro
Aldo Bonomi
Continua l’interessante collaborazione tra Acri in rete e La Casa della Paesologia. Oggi pubblichiamo il contributo di Aldo Bonomi che prima del suo scritto si rivolge a Franco Arminio, nostro concittadino onorario e ospite speciale del Siluna Festival.
Caro Franco, mi accingevo a rispondere al tuo appello-scrittura sulle “aree interne”: tema anche troppo abusato, che si fa storytelling, che annebbia il racconto, ed anche la tua poesia resistente. Quindi, come capita sempre più spesso nella società automatica, ho ripescato nella memoria dell’ordinatore un mio contributo al catalogo della biennale che aveva come tema l’arcipelago delle aree interne, pensando di inviartelo per tua valutazione ed eventuale pubblicazione. Rileggendo il pezzo nel comunicare da remoto a cui ci stiamo abituando, nello scavare lento le parole, mi ha colpito la citazione di Pavese “resta sempre lassù il paese” e mi sono ricordato di una nostra conversazione telefonica durante il lockdown, in cui entrambi eravamo nel nostro piccolo comune di residenza in una area interna, tu in Irpinia ed io in Valtellina. Ricordo che ci siamo detti “siamo dei privilegiati”, rispetto a chi sta nei condomini metropolitani: se alziamo lo sguardo vediamo prati e boschi, perché gli alberi non volano, e nella prossimità troviamo traccia di ciò che resta della comunità. Comunità tanto evocata nei giorni della pandemia. Parola dimenticata che rimanda più al paese che alla città ed alla cittadinanza che anticipa la società, parola che evoca sussurri di condivisione. Quelli che ho sentito correre di casa in casa nei giorni in cui anche i riti antichi della comunità, i funerali per le vie del paese, erano in lockdown. Così come si erano fatti sussurri i rumori di quella economia informale che in gergo economico chiamiamo sommersa, che dalla agricoltura alla edilizia alle artigianie tiene assieme economie minuscole di vite minuscole. Vite aggrappate come non mai a ciò che restava in paese della medicina di territorio: con l’ospedale giù in città da evitare, avendo tutti chiaro che era a rischio “lazzaretto”, il farmacista ed il medico condotto riprendevano ruolo sociale di cura, cercando di evitare il male. Così, a proposito di aree interne salubri per il mal sottile diventate celebri ne “La montagna incantata” di Thomas Mann, ho seguito il rigenerare e riattivare come padiglione Covid il grande sanatorio per la TBC costruito nella terre alte non lontano dal mio paese. Mi dirai, caro Franco: per uno che era partito criticando retorica e storytelling delle aree interne è una bella botta di nostalgia, il “resta sempre lassù il paese”. Hai ragione, può trarre in inganno il mio far riferimento alla dimensione ecologica dei prati e dei boschi, alle tracce di comunità, alla economia informale fatta di saperi antichi e contestuali ed alla medicina di territorio, mai come oggi così attuale. Ma la parola che va scomposta e ricomposta, anzi rovesciata e scagliata, nel nostro dirci poeticamente e da paesologi “siamo dei privilegiati”, è come scrivevo per la biennale, “Il margine che si fa centro”. Lo dico a te che ogni anno ci chiami ad Aliano in memoria interrogante di Carlo Levi e del suo interrogarci sul perché “Cristo si è fermato a Eboli”; se non ora quando, prender cammino per andare noi ad Eboli Salerno Napoli e per me montanaro valtellinese andare giù nella città infinita lombarda. Se non ora quando, rovesciare il paradigma dell’attesa dello sviluppo che arriva da fuori: magari oggi, nella nebbia che prima ho evocato, con la riscoperta dei borghi e delle terre alte non solo per sciare ma per la salute del corpo, che abbiamo scoperto può essere contaminato. Se non ora quando, visto che la crisi ecologica ha posto la questione della green economy e di un altro modello di sviluppo. Se non ora quando, visto che il salto d’epoca, l’antropocene, ha come paradigma che non è il vuoto ma il pieno, che non è il margine ma il centro, il problema. Mi pare questione che riguarda il paese, ciò che resta della comunità, le città e la cittadinanza e la società che viene avanti; non è solo questione di paesologia o di ministero dedicato alle aree interne. A maggior ragione nell’arcipelago fatto di migliaia di comuni-polvere o piccoli comuni di cento città e di aree metropolitane non ancora megalopoli che ci rimanda la geografia del nostro paese. Occorre, caro Franco, mettersi in mezzo partendo dal margine ai grandi interrogativi epocali che interrogano le forme di convivenza. Alzare lo sguardo partendo dalla sociologia delle macerie dei paesi abbandonati, che sono una risorsa, ma anche abbassare lo sguardo, dalle terre alte dove “resta lassù il paese”, verso le terre basse delle città infinite dell’urbano regionale delle villette a schierafabbrichetta dopo fabbrichetta capannone dopo capannone, perché come ho sempre scritto non ci sarà smart city senza smart land. Quindi mi perdonerai se ti chiedo poeticamente di continuare ad essere continuatore del “resta sempre lassù il paese” ma anche di portare il racconto del margine al centro, ad Eboli, metafora del mettersi in mezzo alle forme del vivere e dell’abitare che verranno. Mi scuserai, voleva solo essere una mail di accompagnamento del testo che avevo scritto per la biennale in risposta alla tua richiesta di uno scritto sul tema delle aree interne. Fammi sapere cosa ne pensi... ovviamente puoi usare sia questo che il pezzo allegato da cui sono partito. Arcipelago Italia: il margine che si fa centro Testo pubblicato nel catalogo “Arcipelago Italia. Progetti per il futuro dei territori interni del Paese”, Biennale Architettura 2018, Quodlibet, curatore Mario Cucinella L’arcipelago è immagine spaziale fantasmagorica. Usata dalla scienza triste, l’economia, sempre più fantasma triste nei flussi globali, disegnando nodi di reti nelle metropoli e immagini di imprese non più radicate ma solo ancorate ai territori da dove salpare. Arcipelago Italia è il suo rovesciamento. In una allegoria, in un mettere in mostra e rappresentare terre e territori che sono isole ai margini dei flussi. Terre che non si muovono, ma costruiscono territori e comunità in movimento nel divenire sociale di forme del vivere, dell’abitare e del fare economie all’epoca dei flussi. Lo chiamano margine o aree interne. Ma quello che si mette in mostra è il racconto del loro divenire centro nell’ipermodernità che avanza. Sono luoghi simbolo dove letteratura e storia fanno precipitare, più che altrove, le discontinuità del salto d’epoca. È nella dialettica tra flussi e luoghi che va capito e cercato il movimento dei tanti attori sociali di quell’Arcipelago che va dall’arco alpino giù lungo l’Appennino sino al Mediterraneo. Quasi a segnare la linea tra l’Europa del burro e l’Europa dell’olio. Confine che interroga un’Europa del rinserramento che pare aver dimenticato l’attraversare, le Vie Francigene, le abbazie e i rifugi per i profughi-viandanti di oggi. La coscienza di luogo fa prendere parola ai territori, rompendo l’anomia triste del margine rispetto al centro. È interessante indagare il dilatarsi odierno dell’adagio broudeliano “città ricca - campagna florida” sino alle terre alte, alla montagna disincantata. Non più solo fantasma o allegoria di un racconto metropolitano. Le vite minuscole del margine stavano in quel racconto del mondo dei vinti di Nuto Revelli. Fatto di tracce della coscienza di luogo a confronto con la coscienza di classe. Il fordismo è stato esodo e spaesamento verso il basso, il postfordismo dell’economia diffusa si è caratterizzato con la risalita a salmone del capitalismo molecolare. Così tracciando una geografia di vallate e di aree del margine con in basso capannoni industriali diffusi e supermercati e in alto ciò che resta: comuni polvere spesso paesi abbandonati. Oggi le risorse di ciò che era margine si fanno centrarli nell’epoca interrogante i modelli di sviluppo e le forme di convivenza: acqua, aria, boschi, paesaggio, bellezza, sono elementi fondanti della green economy, sono l’utilità marginale di un’economia nella crisi ecologica del sistema. Da qui la vibratilità del margine e dell’Arcipelago fatto di tracce di coscienza di luogo che si interrogano sul “non più”, sull’abbandono ai tempi del fordismo e sul riabitare un “non ancora” che la coscienza di luogo rende possibile. A partire da “una rivoluzione dello sguardo,” come scrive Antonella Tarpino, che ripari la memoria tradita di quei luoghi, la montagna povera e le aree interne che in Italia sono più della metà del territorio. Significa ripartire dal nostro paesaggio che, sarà bene ricordare, non è questione estetica, ma è costruzione sociale che prende forma nelle lunghe derive della storia. Il riabitare e far rinascere i luoghi, l’incontrarsi nelle forme di convivenza fa dell’Arcipelago un pensare e condividere la comunità che viene. La rinascita dei luoghi è paesaggio di una civiltà materiale che fa economie, manutenzione e bellezza di un territorio. “Resta sempre lassù il paese” come scriveva Pavese, non è nostalgia, ma voglia di comunità di cura e di operosità che non può prescindere nell’epoca dei flussi dal pensare una mobilità dolce, una scuola e una sanità, una città che viene che fa welfare community. Quel che è certo, quello che si è messo in mostra, è che dal territorio del mondo dei vinti si è ripreso voce e racconto. Accettando al sfida del “non ancora” che prende forza in una memoria della sociologia delle macerie, di “ciò che resta” ove esercitare eterotopia. Alzando lo sguardo con una voglia di comunità verso un altro sviluppo possibile, dove il margine si fa centro. |
PUBBLICATO 18/08/2020 | © Riproduzione Riservata
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