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Ho imparato tanto

Foto © Acri In Rete
Simonetta Volpe
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Ho lavorato nelle aree interne e ho imparato tanto.
Ho imparato dai racconti di chi caparbiamente rimane o vuole tornare, di chi aspetta solo uno spunto per travolgerti con una valanga di proposte, di chi è ancora pieno di sogni. Pochi gli scoraggiatori che ho incontrato.
Ho imparato dal racconto di Silvio, che insegna chimica in una università lontana, in Francia, e che con il fratello ha fatto rivivere il frantoio di famiglia sulle colline del Cilento.
Silvio che ha una compagna e due figli, uno appena nato, ma non li porta a vivere “al paese” perché il primo ospedale sta a chilometri di distanza, dopo una lunga via tortuosa. E con i bambini piccoli, si sa, tutto può accadere. Silvio, con altri coltivatori, giovani e meno giovani, ha trasformato e arricchito il mio lavoro con il gruppo auto-costituito STEPS, che ha convertito una fase di asettico “ascolto” in una progettazione partecipata sull’economia legata all’agricoltura e agli orti del Cilento, indicando possibili soluzioni per fare riprendere produzioni sempre più ridotte.
Ho imparato dal signor Cancellaro, orgoglioso del suo mestiere di scalpellino. Lui si sente erede delle maestranze che hanno reso grande la Certosa di Padula, che sogna come una grande fucina di artigiani contemporanei e di creativi, come era in passato: un grande attrattore di menti, non solo di visitatori.
Ho imparato dall’esperienza di minuscoli Comuni come Piaggine o Bellosguardo, che hanno trasformato i migranti da problema a preziosa risorsa, a cui dare un lavoro stabile e una comunità in cui inserirsi.
Ho imparato dai ragazzi del Vallo di Diano a non avere un’idea preconcetta sulle “vocazioni” delle aree interne e che anche un piccolo istituto, lontanissimo dai “centri di competenza”, può nascondere, tra i suoi studenti, piccoli grandi geni capaci di inventare e trasferire soluzioni tecnologicamente all’avanguardia alle imprese in cui compiono l’alternanza scuola-lavoro
Tutti loro e molti altri hanno avuto un ruolo importante perché spesso, nel mio mestiere, ci si ferma alle supposte certezze, sicuri di avere “la ricetta giusta” in tasca. Troppo spesso ci si lascia andare alla tentazione di dire cosa e come devono operare i territori… i loro abitanti, invece, sono molto più innovatori del cliché che vogliamo cucire loro addosso.
Infine, una riflessione d’attualità. I territori delle aree interne hanno lavorato con ingegno per contrastare la rarefazione di quelli che sono, di fatto, diritti di cittadinanza: salute, istruzione di qualità e accessibilità, diritti sacrificati in nome di una miope politica di risparmio della spesa pubblica. E hanno lavorato per far tornare la gente a vivere nei paesi, per riportare servizi, scuole, sanità con formule innovative.
Molte delle soluzioni che sono emerse e sono state sperimentate per ovviare all’isolamento fisico, dovuto ad un territorio difficile da raggiungere, sono anche quelle adottate recentemente per un altro tipo di isolamento, quello conseguente all’emergenza sanitaria del COVID -19, in cui ognuno di noi è divenuto per un po’ un’area interna… abbiamo vissuto la distanza, abbiamo riflettuto sul poco (o molto) che si possedeva a portata di mano, abbiamo reimparato a fare gesti desueti, a utilizzare quello che il perimetro del nostro paese ci offriva.
Ma abbiamo anche preso atto che ci sono altri modi per sentirsi vicini ad una persona, per lavorare con profitto a distanza, per stare tutti insieme in una classe stando a casa propria, per farci curare un malanno facendoci visitare dal medico con il cellulare: tutte azioni già proposte dalle aree interne.
La pandemia ci ha dimostrato che, con i giusti presupposti (completamento della banda ultra larga in primis), nulla può essere più smart di un’area interna.

PUBBLICATO 14/07/2020 | © Riproduzione Riservata





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