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Coronavirus, didattica a distanza e paura

Foto © Acri In Rete
Vincenzo Rizzuto
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Non abbiamo nulla contro la didattica a distanza, specie in tempo di coronavirus che ci rende prigionieri di noi stessi buttandoci nello scoramento più nero della solitudine senza scampo.
L'uomo è una creatura, per sua natura, sociale; ha bisogno degli altri per realizzarsi, vincere le sue malattie, procurarsi quel poco di felicità cui aspira, e, soprattutto, trovare solidarietà nelle sue immancabili peripezie che la vita inevitabilmente gli apparecchia; e la panacea per eccellenza contro queste peripezie è la solidarietà, l'amicizia, che sono le espressioni più autentiche della socialità.
Tutto questo l'aveva capito bene il grande Giacomo Leopardi che, nell'accorato canto 'La ginestra', invoca appunto la solidarietà come unico rimedio ai mali dell'uomo: quando la spietata natura ci colpisce, buttandoci nella disperazione e nel dolore, non c'è altro rimedio che la disponibilità degli altri ad aiutarci, a condividere con noi gli affanni, lo stato di bisogno e di solitudine in cui si cade.
Ebbene, proprio questo bisogno di stare insieme, di condividere con gli altri i nostri limiti, di affrontare gli ostacoli, ma anche di gioire, fa dei rapporti virtuali, e quindi della didattica a distanza, uno strumento robotico freddo, insensibile e incapace di toccare le corde più remote dei rapporti umani.
Con le strade virtuali possiamo anche eseguire a distanza delicati interventi chirurgici, ricostruire ambienti non più esistenti, visitare luoghi lontani, proiettare davanti a noi ologrammi di persone e avvenimenti del passato, eplorare corpi celesti lontani da noi anni luce e tante altre meraviglie, come parlare e vederci in tempo reale con persone di altri continenti; ma tutto questo non potrà mai sostituirsi al bisogno che l'uomo ha di essere fisicamente presente agli eventi, di toccare con mano e 'annusare' la realtà pulsante in cui egli vive e di cui egli stesso è costituito.
A maggior ragione, l'atto educativo e formativo non può fare a meno del contatto vivo, ravvicinato tra discente e docente; entrambi hanno bisogno di guardarsi negli occhi, di scambiarsi impressioni, intuizioni, modi di porsi di fronte alle mille problematiche che via via si pongono in essere nello scambio continuo dello stare insieme in un unico ambiente fisico.
In oltre quarant'anni di insegnamento, personalmente mi sono reso conto che il rapporto con i miei allievi si è sempre concretizzato in un dare ed avere reciproco, in uno scambio fatto anche di scontri e di rifiuti, resi ancora più delicati e problematici da sentimenti più profondi, istintivi, non sempre riconducibili a decriptazione razionale, come, del resto, sono tutti i rapporti umani, anche quelli tra padre e figli, tra fratelli, tra innamorati.
E in tutto questo non c'è nulla di strano: è invece il manifestarsi di sempre della natura umana che, per crescere e diventare se stessa, ha bisogno di socializzare, di stare insieme ai propri simili per dare luogo a quella che chiamiamo civiltà, progresso, avanzamento lungo la strada faticosa della vita attraverso la storia.
E forse è proprio questa medesima intelligenza collettiva, frutto appunto di quella ‘tempesta di cervelli’, (brainstorming, come dicono gli inglesi), che costituisce quella presenza di divino che c’è nell’uomo.
Da qui, credo, la mancata lungimiranza di quanti credono che la didattica a distanza possa in un prossimo futuro sostituire quasi del tutto l’aula e il banco di scuola, dall’asilo all’università, nella delicatissima opera di educazione e formazione dell’uomo. Un’opera, questa, che si sostanzia invece di complessi passaggi di interscambio fra l’individuo e l’ambiente che lo circonda, e che attraversa varie fasi di sviluppo e di arresti, di proiezione nel futuro e riflessioni sul passato dell’intera storia umana: proiezioni, passaggi, riflessioni e arresti che non possono certo attuarsi attraverso asettiche, fredde e meccanicistiche ‘lezioni’ offerte con l'ologramma del docente.
Per tutto questo, non bisogna mai dimenticare che la formazione dell'uomo è un processo artigianale, personale, irripetibile, i cui contenuti non sono mai lineari, semplici e programmabili in ogni loro aspetto, ma 'vettoriali', imprevedibili, liberi, come imprevedibile e libero è l'uomo medesimo.
E tuttavia, proprio per questa sua imprevedibilità e presenza del divino in lui, come mi piace dire, dobbiamo essere fiduciosi nella sue capacità, con cui certamente riuscirà a vincere anche questo nuovo nemico che si annida nel 'coronavirus', così come ha saputo fare uscendo dai millenni bui dell'ignoranza e della superstizione, che tanti dolori e lutti gli hanno provocato.
Qualcuno certamente ci accuserà di eccessivo ottimismo, ma è proprio l'ottimismo a costituire la forza che ha sempre sorretto il cammino dell'manità attraverso peripezie, pericoli e ostacoli che da sempre hanno reso difficile il 'mestiere di vivere'.
Un ottimismo,però, che non deve trasformarsi in acritica fiducia nella scienza e nella tecnica come saperi onnipotenti in grado di dominare tutta la realtà.
Il sapere dell'uomo, infatti, non è mai universale e definitivo, ma soggetto continuamente a correzioni, a smentite, e ad essere sostituito da nuovi strumenti di indagine che l'uomo medesimo escogita attraverso il tempo. Chi si affida a questo concetto di scienza apodittica, infallibile, è destinato prima o poi a cadere nello sgomento difronte ad accadimenti imprevisti e imprevedibili come la stessa minaccia del coronavirus, che invece, ahimè, fa parte della realtà in cui viviamo.
Avanti, dunque, sul cammino della solidarietà e della condivisione, da cui scaturisce quella intelligenza collettiva, divina appunto, che è l'unica risorsa con cui l'uomo potrà vincere le sue battaglie presenti e future contro il male.

PUBBLICATO 23/04/2020 | © Riproduzione Riservata





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