Giammai come Eteocle e Polinice
Angela Maria Spina
E’ certo che l’insonnia della ragione genera mostri, se intervengono stati allucinatori di coscienza, che partoriscono mostri attraverso strabordanti aberrazioni, sparate a raffiche come pensieri fatti concetti.
Poi a non voler circoscriverne il danno, si sceglie pure la maldestra ostentazione dell'appartenenza ai simpatici “club” dei personaggi che riempiono la scena da dribblatori professionisti, bizzarri, grotteschi, surreali e talvolta anche fuori di testa, se vivono l’illusione di aver trovato un’intima, personale sensazione di autenticità; che invece abbaglia e travaglia la comunità con l’iperbole degli effluvi elettrici di certe fatti. Non c’è peggior sordo, di chi non vuole stare ad ascoltare. Nella critica, c’è sempre spazio per certa filosofia dell’autorità che propugna l’autoritarismo solo come virtù ed attitudine degli intelligenti; insistendo a voler considerare certe altrui analisi solo come la naturale conseguenza di un perverso e malato scetticismo radicale. Al massimo sarebbero se mai tutte da dimostrate, certe mal cagionate accuse, mosse -c’è da crederlo- con la goliardia degli impertinenti: sull’inciviltà retrograda (di certi acritani) socialmente pericolosi, -perché dicono esser dediti - a ll’ipetrofismo dell’ego, così come all’accumulo di rancori e frustrazioni personali, mosse per il solo fine di determinare posizioni di potere da conquistare dietro uno schermo di computer, o su lettino di psicoanalista freudiano o junghiano; quando a voler proporre analisi ed interpretazioni, quindi interessarsi e scrivere di Acri e di Acritani, si viene sempre tacciati in un modo o nell’altro di essere disfattisti retrogradi. Nulla di più sbagliato. Rifiutarsi di voler riconoscere agli altrui spunti di riflessione, il savio e sano esercizio del pensiero, ancor più del libero esercizio dignitoso della parola, non è offensivo solo perché oltraggioso dell’intelligenza. Ma tende a ribaltare il senso delle cose. Le rivolte solitarie come il parlar chiaro, possono talvolta risultare come l’avvelenamento dei pozzi. Pericolosi per uomini e cose. Non serve alcuna sfida a singolar tenzone a questa comunità acritana, tra la filosofia della realtà contro quella del sogno, che rivendica cioè l’asciutto realismo, contro il cinico idealismo furbo e baro. Poiché ad ognuno è dato rifugiarsi per come si può o secondo quanto si crede, in mondi possibili, passati o futuri, ed anche in quelli da venire, in forme di gnosticismo amaro e magari anche perdente. E questo basta. La mentalità “neo protestante” della nuova etica acritana è quella dell’ altro turista che può cioè sempre contare tra alti o bassi paradossi, sull’ estetica non self; e può nutrirsi del dialoghi con i morti. Di soliloqui in entrambi i casi muti e solitari, ancorché della ciclopica imposizione a questa strana realtà, contro gli inutili cerebralismi dei tempi, finalmente della nuova scoperta estetica; sappiamo tutti bene sempre come avvalerci; come delle parole opportune, della filosofia ed all’occorrenza anche di quella dei filosofi. Non conta essere isolati o appartati in questa comunità acritana mesta e desolata; ma forse conta all’incontrario, chi vuole continuare ad abitare lontano dalla storia e dentro a certe sue sirene; che ci restituisce intonso il debito con Padula lui sì -l’irregolare della cultura meridionale- che ebbe una parabola simile, da simpatizzante in un primo momento del realismo e poi radicalmente se ne rese ostile; (forse anche per giustificabili) ragioni opportunistiche, o più banalmente anche per non voler sacrificare al problematico scetticismo delle origini, un più conciliante idealismo della rassegnazione della parabola finale. Dopotutto in tempi più recenti con Pirandello, l’ideatore della celebre distinzione tra forma e vita, tra mascherata sociale e spirito autentico, abbiamo tutti imparato che per molti aspetti certi accadimenti sono verosimilmente pirandelliani: cioè non conoscono la serena coerenza degli idealisti che eccedono, aforisticamente, nell’ibridare il pensiero organico e strutturato negli improbi pensieri fulminanti e sparsi. Il solo tratto comune di questi pensieri di illustri pensatori è solo quello della vita, che forse, insegna a tutti - allora come oggi - che nella storia certi errori, sarebbe proprio bene non commetterli, ma giacché siamo condannati a farli (da provinciali) sarebbe cosa buona e giusta, commetterli meno agevolmente e senza colpo ferire sbaragliando se possibile anche certa cattiva coscienza. Forse è proprio vero, non è sui concetti, ma magari proprio nell’indole degli acritani, che si misura quel radicale spirito di ostilità caratteristico della nostra comunità confusa e perciò disorientata; rispetto al tempo, alla moda, al potere; al suo bisogno viscerale di schierarsi distruttivamente, (è indifferente se contro i più o contro i meno) per voler ostinatamente scegliere di continuare a percorrere contromano la storia di questo luogo sempre meno abitato e vissuto. Potersi fregiare dell’essere una“ storta” con un’identità scontrosa e vis polemica coraggiosa, (che mi accompagna dalla nascita nella mia ribellistica vitalità) ed essere tacciata di farlo strumentalmente ed ingiustamente; per certi amici miei concittadini, lo devo semplicemente ai miei sin troppo noti geni “CiccioPineschi” di cui posso andare fiera e giustamente orgogliosa; come dalla mia maturità di donna acritana cioè meridionale. Resto fedele testimone di me stessa e della mia storia, della mia comunità sempre più avvilita: etsi omnes, non ego, (anche se tutti, io no!) Che cos’è è mai il bello? Che cos’è l’incolto, l’inesperto, l’indifferente, per Acri e gli Acritani? Se ci si ostina a rifiutare di cogliere bellezza nei particolari moti d’animo e nelle argomentazioni del libero pensiero, dobbiamo allora proprio arrivare a dire che ci sia davvero ben poco da sperare, per certi fini culturali? Viceversa, i colti ed i sapienti quelli che per intenderci osannano virtù e nuovi spazi da spolpare, con il loro giudizio valgono molto meno di quello che si crede. Magari perché si sono formati proprio sulla canonistica di certa falsa morale acritana: più ipocrita che torbida; che essi stessi continuano a studiare, solo per entrare nel novero dei colti; avendo come riferimento proprio quelle stesse opere architettoniche tutte acritane, come modelli supremi ispiratrici di alto valore filosofico, estetico e culturale. Il meccanismo, autoreferenziale, che cioè non si basa su evidenze di alcuna civica coscienza collettiva ma, in fondo, semplicemente su “convenzioni storiche” che ci tramandiamo stancamente e di cui oramai in tanti arrivano persino a riconoscere un certo carattere posticcio, relativo, eternamente discutibile; ci perdono tutti gli Acritani. Smarrendo dignità, morale e forse anche stile, si resta indubbiamente colpiti da certo carattere in fondo solo convenzionale, come al solito sempre personale, o forse semplicemente soggettivo, con cui si giudica la malvagità, la cattiveria e la cinica violenza di certe invettive acritane, unicamente contro persone e fatti sbagliati. La furia incendiaria “l’iconoclastia selvaggia” così come il culto del presente l’atto di fede alla tradizionale indole acritana, imbalsamata e mortifera, non ci hanno sinora portato da nessuna parte. Ma la brusca interruzione o forse al peggio l’abominevole aborto dell’insano senso civico indentitario, ci hanno fatti solo giungere a profetizzare la barbarie civilizzata, o la barbarie della riflessione (per citare Vico) quasi grottesca nel suo carattere meramente convenzionale. L’esperienza estetica non dovrebbe giammai essere inaridita, o ridotta ad una posa insulsa ed insensata, su cui sarebbe perfino troppo facile ironizzare. Ma intendo astenermi, come si conviene alle signore! Quelli che, con certo ottimismo un poco ebete, affermano con fierezza che il futuro immediato di questa città sarà finalmente culturale e che (finalmente) potrebbe persino farci vivere di beni culturali, del nostrano patrimonio artistico, dovrebbero semplicemente cominciare a chiedersi quanto ancora a lungo la comunità acritana, continuerà ad aver voglia di frequentare e vivere questi stessi mausolei cittadini, se l’esperienza estetica resterà sempre ridotta a questa pantomima fatua e grottesca? Culturalmente parlando, per Acri e gli Acritani, certo relativismo radicale dell’ estetica della perifericità, dovrebbe invece solo servire a farci (finalmente) declinare i veri temi intrinseci della nostra comunità - ribadisco- lacera e dispersa; portandoci a concluderne che, attualmente e stando ai dati delle cose, in questi stessi luoghi, non esiste altra comprensibilità possibile: perché ogni produzione etica ed estetica è pienamente comprensibile solo da chi l’ha concepita, e visto che nessun soggetto riesce a uscire da se stesso, così come per l’arte e come il linguaggio in genere. Risultano forse proprio per questo del tutto vacui i tentativi più o meno maldestri, di voler comunicare certo diffuso disagio e certo grave malessere degli acritani, che preferirebbero almeno quanto me, non continuare a dover subire il danno ardito, di una considerevole serie di farseschi comportamenti. Allora è quanto mai opportuno ricorrere ad Eteocle e Polinice come metafora dell’irriducibile alterità di ogni individuo acritano rispetto ad ogni suo simile. Sufficit |
PUBBLICATO 13/01/2020 | © Riproduzione Riservata
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