Dieci domande a Dalila Cozzolino
Metropolitan Magazine
Una scorrevole chiacchierata con l’attrice calabrese vincitrice del Premio Hystrio alla Vocazione.
MMI: Raccontaci un po’ di te, delle tue esperienze recenti, delle tue esperienze passate e di quello che stai cercando per il futuro. D.C.: “Sono attrice”, parto così, con Ilse, un personaggio che mi piacerebbe tanto incontrare. Essendo cresciuta dentro la mia compagnia, la Compagnia Ragli, mi viene da dire, però, che sono attrice artigianale e non “pura”, come dicono oggi. Terribile attaccare questa purezza. Ma con artigianale intendo la possibilità di essere sia creatrice sia materiale di creazione, ecco. Avere una compagnia in cui studiare e portare avanti quello che si vuole ricercare è una gran fortuna e molto presto cominceremo a lavorare su un nuovo spettacolo, vincitore della sezione demo di Inventaria 2019. La Compagnia Ragli si occupa di teatro sociale e civile, portando avanti, con testi originali e non, un filo rosso: le tante declinazioni del potere nel contemporaneo. Uno degli ultimi lavori è The Speaking Machine di Victoria Szpunberg e, rispondendo all’ultima parte della tua domanda, direi che per ora mi piacerebbe portare avanti questi due spettacoli di cui ho parlato, oltre a nuove collaborazioni con altre compagnie e persone che mi aspettano e lo studio di alcuni testi. MMI: Qualcuno definisce il teatro come “una ferita che segna per tutta la vita”, sei d’accordo con questa affermazione, se sì ti va di commentare? D.C.: No, non sono d’accordo. Penso che a segnarci possa essere anche qualcosa di bello. E il teatro per me non è sofferenza. Facciamo che per me il teatro è anche, oltre a tanto altro e a nuove definizioni che ancora devo incontrare, un gioco serio in cui si specchia tutta la vita? MMI: La tua Compagnia vanta una bella presenza nel panorama teatrale italiano, sei soddisfatta dei risultati raggiunti? Cosa bolle in pentola per il futuro? D.C.: Siamo presenti, quello sì, con tutta la fatica e il sacrificio che questo comporta. Non è facile stare a galla, ogni tanto scompariamo per ricaricare le forze, poi torniamo però. Ma questa è la storia di tanti, tantissimi altri. Sono soddisfatta dei risultati perché non smettiamo mai di cercarli. E poi arrivano. Mi accorgo ora che, rispondendo alla prima domanda, dove forse avrei dovuto rimanere un po’ di piu su di me, in realtà ho già risposto. In pentola ci sono The Speaking Machinee Chi niente fu. MMI: Il tuo Macbeth Aut Idola Theatri ha ricevuto moltissime critiche positive, ce ne parli? D.C.: Macbeth è stato il mio primo esperimento di regia, dopo il corso di regia extracurriculare frequentato alla Paolo Grassi. Macbeth è un esperimento, una riflessione sul lavoro dell’attore nell’attraversamento di un testo così superbo e monumentale. L’attore (l’attrice in questo caso), come Macbeth, tenta di stare in una libertà spaventosa. Super stitio, stare sopra. E in questo può fallire, come Macbeth. Perdere. Si mostra il potere nella sua possibilità di perderlo. In un luogo, il teatro, in cui si può ancora perdere. Diciamo che viene fuori più o meno da qui. E’ un lavoro che amo profondamente perché mi ha permesso di lavorare profondamente, collaborando con un light designer meraviglioso (Giacomo Cursi), studiando le luci in scena per mostrare ciò che appare, per mostrare quello che non c’è. MMI: Hai recentemente debuttato con un lavoro di una drammaturga catalana, a Primavera dei Teatri, abbiamo letto della tua eccellente interpretazione di un ruolo complicato: una donna-macchina che non può camminare. Come è stato affrontare questo personaggio, su cosa hai lavorato? D.C.: È stato estremamente divertente. Comicamente tragico, perché le cose su cui dovevo lavorare erano tantissime. L’accento argentino, le diverse lingue (italiano, spagnolo, inglese, francese, hiddish) a volte anche tutte nello stesso monologo, le gambe fermissime, la relazione con gli altri attori, il corpo “meccanico” e tanto altro. Ho lavorato insieme agli altri, prima di tutto: con l’autrice, Victoria Szpunberg, con Rosario Mastrota, il regista, con Antonio Monsellato e Antonio Tintis, gli altri attori. Ho lavorato leggendo e rileggendo il testo, entrandoci sempre di più, ho lavorato sulla creazione di una partitura fisica ricca di dettagli, perché i dettagli ti aiutano a stare dentro le cose profondamente, secondo me. E ho letto Kafka che nello spettacolo, e soprattutto nel personaggio di Valeria, è molto presente. MMI: Il Premio Hystrio alla Vocazione è stato un riconoscimento personale molto prestigioso, ci parli delle emozioni provate e delle aspettative che il Premio ha creato in te? D.C.: Il Premio Hystrio è uno dei miei ricordi più belli. Le emozioni provate sono state così violente che ricordo quella giornata come un sogno. Questo Premio, oltre ad essere una vetrina preziosa, l’occasione di un incontro con una giuria di esperti molto prestigiosa e soprattutto fatta di belle persone e l’opportunità di confrontarsi con altri giovani attori, è stato prima di tutto la conferma che questo mestiere posso farlo e che è la mia vocazione. MMI: Milano, Roma e Napoli, tre città e tre stili diversi. Teatralmente vuoi raccontarcele un po’? D.C.: Sono tre città che hanno da offrire tanto teatralmente, a mio avviso. C’è chi lo fa di più e chi, per collosi meccanismi, non lo può fare. Milano, ci vivo da un anno e ci stiamo ancora conoscendo, è una città dove si vede una educazione al teatro. E la cultura è educazione alla conoscenza. Il pubblico c’è e non è solo fatto da addetti ai lavori. Le novità internazionali sono tantissime, io vado a teatro praticamente tre volte a settimana perché non posso perdermi l’occasione di vedere chi arriva. Milano è aperta, ha una tradizione fortissima che si fonda sulle scuole storiche ed è curiosa. Roma la conosco un po’ di più, forse, e credo che in questo momento stia vivendo un periodo di decadenza, o forse, decadimento (che è fatto anche di deterioramento). Sono tantissime le realtà che non riescono a vivere bene, che non riescono a lavorare. E il rischio è che ci si auto-delegittimi perché il sistema ti delegittima. La speranza è che da questo momento si possa imparare per trovare le soluzioni, o comunque cominciare a fare tante domande. Io ne ho tante, per esempio. So perfettamente che si parla solo di questo, si parla, si parla. Ma alcune realtà invece si muovono pure e questo è entusiasmante. Carmelo Bene dice, più o meno: si parla della crisi del teatro ma nessuno vuole provare a fare un teatro della crisi. Napoli non la conosco bene, anzi per niente. So solo che ne sono affascinata tantissimo perché è una città che dice senza decorazioni di forma. Napoli forse, rispetto a Roma e Milano, sa portare il teatro fuori dal teatro per incontrare un pubblico vero. Ripeto, quello che dico è il frutto del mio passaggio. E so pure che ci sono delle realtà bellissime, la possibilità di abitare spazi occupati che vengono messi a disposizione delle giovani compagnie per le prove e giovani registi davvero molto bravi che ho avuto il piacere di incontrare. MMI: Cosa deve offrire oggi il Teatro? Il pubblico è ancora attratto da questa arte o il contemporaneo ha creato un pubblico diverso da prima? D.C.: Il Teatro deve tornare se stesso. E teatro non vuol dire luogo privilegiato ed esclusivamente riservato a chi il teatro lo fa. Il teatro è teatro se è per il pubblico, se è pubblico. Io credo che il teatro è e sarà sempre un luogo in cui lo spettatore può capire qualcosa di sé, in maniera diversa da come capisce qualcosa di sé nella vita. Nella vita lo spettatore non è spettatore, quando lo spettatore si siede in platea invece si guarda rappresentato. E il teatro accade in quello spazio tra il pubblico e il palco. È lì che accade la rivoluzione. E il pubblico ne è attratto se il teatro accade. Non farei una differenza tra il contemporaneo, post contemporaneo e post post contemporaneo (ormai siamo post post, dice qualcuno): il teatro deve accadere per il pubblico, da sempre. E non c’è bisogno, a mio avviso, di inventarsi nuove forme per trasformare il pubblico in qualcosa d’altro. Pubblico-critico, spettatore-critico, pubblico alle prove dello spettacolo, pubblico non pubblico, pubblico attore, pubblico regista, spettacoli senza pubblico. Il pubblico è felice di fare il pubblico se sul palco ci sono degli attori bravi (e può bastare solo questo binomio: pubblico e attore).“Non ho mai amato il teatro come fine a se stesso (…) attraverso il teatro io penso tutto il resto: io vedo la politica attraverso il teatro, vedo l’urbanistica. Lo intendo come un momento catalizzatore (…) attraverso il quale passa un mio dialogo, pubblico o anche segreto, anzi è più importante che sia segreto. Ho creduto e vissuto per il momento fragile, insostituibile, della comunicazione teatrale” (Paolo Grassi). MMI: Cosa vuol dire, in questo momento, essere attrice in Italia? D.C.: Fare molta fatica per pagare l’affitto. Essere sempre in corsa per formarsi, formarsi, formarsi come se non fosse mai abbastanza la preparazione che si ha. Dover molto spesso far valere i propri diritti. Formarsi, formarsi, formarsi. Lavorare su di me e su quello che mi interessa. Non mi metto in vetrina, non anelo e non inseguo nessuno. Non lo so fare e ho capito che non mi interessa, in realtà. Preferisco spendere le mie energie, la mia ferocia, il mio desiderio, su qualcosa di concreto. E concreto per me è lavorare ad uno spettacolo e incontrare e collaborare con persone con cui si ricerca e si lavora bene. E poi essere quella “rappresentante” di cui parlavo prima: essere per il pubblico qualcosa. Fare un pezzo di strada col pubblico quando esce dal teatro, essere stata un tempo di qualità e non essere dimenticata subito dopo la chiusura del sipario. MMI: Scegli la musica di sottofondo e regalaci un pensiero. D.C.: Sarasate, Romanza Andaluza (senza pensarci tanto, la sto ascoltando ora). Pensiero: Ho pensato tanto a quale pensiero regalare e di solito penso sempre tanto a che regalo fare. Pensare tanto prima di fare un regalo è premura, è attenzione per l’altro ma è anche molto faticoso. Perché si finisce a pensare troppo. |
PUBBLICATO 19/09/2019 | © Riproduzione Riservata
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