Letture con il Prof. Joseph Francese
Vincenzo Rizzuto
Era il settembre infuocato del 2017 quando, pure stremato dal caldo, scrivevo su questa stessa testata giornalistica del prof. Joseph Francese, un nostro acrese illustre che insegna nelle Università americane e anche in quella di Firenze, dove periodicamente tiene lezioni di Italianistica.
Ebbene, anche in quest’anno, altrettanto infuocato e asfissiante, cerco di alleviare il fastidio della calura leggendo ancora Francese. Sì lo studioso é talmente interessante con le sue raffinate analisi sugli autori presi in esame, specie quando fa il mestiere di linguista e filologo, che riesce ad inchiodarmi sul suo periodare e a farmi letteralmente dimenticare l’afa che da ogni parte ci assedia. Questa volta il linguista mi ha intrattenuto con tre nuovi lavori: due lunghi articoli e un altrettanto corposo saggio; i primi due pubblicati dal Dipartimento di romanzi e studi classici, Michigan State University; il terzo su Rhesis, Rivista internazionale di linguistica, filologia e letteratu-ra del Dipartimento di Lettere, Lingua e beni culturali dell’Università degli studi di Cagliari. Nel primo articolo Francese, servendosi di un poderoso apparato critico-bibliografico, del resto sempre presente in ogni suo lavoro, ritorna a parlare di Sciascia (a sciasciare, come a lui piace ironizzare), visto che sullo stesso autore ha già pubblicato un pregevole volume. Questa volta affronta gli 11 articoli che Sciascia scrisse nel 1940/41 su “di Guardia!”, quindicinale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Caltanissetta, sulla politica estera del fascismo, per dimostrare che già in quegli scritti, quando l’autore aveva solo 19 anni, è presente la dissimulazione e l’equivoco verso il fascismo, atteggia-menti che si mantennero sempre presenti in tutta l’opera dello scrittore. Francese, con grande serietà di indagine, analizza in tutti i suoi meandri il periodare di Sciascia e ne mette in evidenza le contraddizioni recondite, senza farsi traviare da ciò che lo scrittore, a volte strumentalmente, afferma quasi per distrarre il lettore: una distrazione che il nostro critico non ritiene del tutto sempre onesta. Per argomentare nel migliore dei modi questa non chiara posizione di Sciascia verso il Regime fascista, Francesce, molto opportunamente, ricostruisce il tessuto sociale e culturale in cui lo scrittore si forma e vive, un tessuto fatto anche di parentele e di amicizie culturali, che vanno dagli intellettuali fascisti a quelli antifascisti; un trasversa-lismo che in Sciascia é presente anche nella sua altalenante adesione nel tempo a varie e contrastanti formazioni politiche: dalla DC al PCI, dall’estrema sinistra al Partito radicale. Una mistura che è un tutt’uno con la cosiddetta “sicilianità” tipica del personaggio, che, rifiutando ogni sedimentata ideologia, aderisce di volta in volta alla realtà pulsante di tutti i suoi personaggi come del suo eroe popolare “Giufà”, di cui fra poco parleremo. Nel secondo lungo articolo, “La pena di morte e strategie narrative in ‘Porte aperte di Sciascia’, Francese analizza l’opera dello scrittore di Recalmuto del 1987, convinto che sia stata scritta come polemica verso la posizione di DC e PCI nei confronti del terrorismo, che Sciascia vede come affare di Stato più che come manifestazione di estremismo ideologico. E Francese, da lettore consumato, sostiene che sia ‘Porte aperte’ che l’Affaire Moro’ sono due romanzi con cui l’autore ‘tenta di togliere ai partiti l’egemonia di gestione della dura realtà, al fine di orientare l’intellighenzia italiana verso un approccio meno ideologico dei fatti, un approccio basato più sugli ideali di libertà e giustizia che su quelli di fratellanza e uguaglianza’. Per Sciascia la stessa libertà è stata messa in pericolo dalla confluenza di DC e PCI così come si afferma nell’Affaire Moro’: è una condanna senza appello del compromesso storico. Insomma per lo scrittore siciliano, fa notare ancora Francese, le persone non possono essere bruciate sul rogo per le loro opinioni!; e gli italiani sono “brava gente” e possono anche essere assolti dai mali del fascismo, che avrebbe fatto quel che ha fatto anche per compiacere all’alleato tedesco!. D’altra parte della stessa notizia della fine del ventennio fascista Sciascia scrisse: “Ci apparve dunque una notizia lontana, quasi estranea come se fosse venuta da un altro mondo…--Infatti a Recalmuto--lo sbarco degli americani è stato una kermesse… Avevano creato una divisione, chiamata ‘Texas’, composta interamente da figli di siciliani. Sembrava una rimpatriata, una festa tra parenti. Parevano siciliani” (Fuoco all’anima: Conversazioni con Domenico Porzio, Milano, Mondadori,1992,p. 33). E ancora, quando il governo ‘continentale’, guidato da Ferruccio Parri, il primo dopo l’Italia fascista, fece arrestare i separatisti siciliani, Sciascia scoprì che anche lui era ‘anziano siciliano’, e quella intrusione del potere romano lo aveva “precipitato in un atavismo siciliano – da cui--non ne sono più uscito”. (La palma va al nord, p. 50/51). Anche qui, secondo noi, fa capolino la solita ‘sicilianità’ di cui lo scrittore non ha saputo e non ha voluto mai liberarsi. Francese, ancora una volta, maneggia con grande maestria tutto ciò che Sciascia ha prodotto, e lo fa con grande rigore scientifico analizzando a fondo la bibliografia più accreditata, da Collura a Padovani, Camil-leri, Stracuzzi, Kem, Pasolini, Dotti, Cazzulli, Ben Ahmed, solo per citarne alcuni. Nel saggio, infine, “Sciascia e Calvino… e Giufà”, pubblicato su Rhesis, Rivista internazionale di linguistica, filologia e letteratura, dell’Università di cagliari, Francese prende in esame il rapporto tra Sciascia e Calvino mettendone in rilievo tutta la sofferta contraddittorietà. Calvino lesse sempre Sciascia non solo come lettore ufficiale dell’Einaudi, ma anche come amico dello scrittore, pur senza mai mancare di dargli “qualche boccone amaro in ogni lettera”; questo per via delle immancabili osservazioni che Calvino amava fare sui testi sciasciani, come avvenne nel ’56 quando Sciascia scriverà “La morte di Stalin” in seguito alla soppressione sovietica della rivolta operaia di Poznan. Calvino anche allora fece alcune osservazioni sul testo, ma Sciascia non ne tenne alcun conto; e Francese ricorda che lo scrittore, in proposito, risponde al critico con sottile e tagliente ironia, dicendogli che quello che a lui interessa sono i suoi numerosi lettori, la lettura di ‘Perpetua’, non quella del ‘cardinale Federico’. Insomma Sciascia non amava essere corretto da Calvino-Einaudi, e questo determinò, nel 1955, la pubblicazione de “Le parrocchie di Regalpetra” con Vito Laterza, che, dopo aver letto il testo, gli scriverà: “ho finito da pochi giorni la lettura del Suo ultimo libro, quasi centellinando le Sue pagine che raggiungono spesso una bellezza e che sempre sono impostate col Suo originale linguaggio che prediligo eccezionale.” (Sciascia, Laterza, L’invenzione di Regalpetra, p. 78). Il rapporto Tra Calvino e Sciascia così, pur essendo stato cementato da contratto con la casa editrice Einaudi, per la quale il primo lavorava ufficialmente da prestigioso scrittore e supervisore, attraversò non pochi momenti di vera e propria rottura, come quando, ricorda sempre Francese, Sciascia chiederà a Calvino di slegarlo dal contratto con Einuadi e gli scriverà: “Con tutta franchezza(e spero me la permetterai in nome dell’amicizia), ti confesso che il mio editore ideale è Vito Laterza: non solo perché paga i diritti con puntualità e scrupolo, ma perché diffonde il libro come meglio non si potrebbe.”(Squillacioti, Storia di un’autocensura, p. 28). --Laterza aveva accettato di pubblicare nel ’59 il “Giorno della civetta” prima del suo completamento, anzi prima di avere visto il manoscritto-- Ma Calvino gli risponderà immediatamente assicurandogli che il nuovo romanzo sarà subito pubblicato nella prestigiosa collana dei Coralli! Agli inizi degli anni ’50 Einaudi incaricherà Calvino di curare un volume sui racconti popolari d’Italia, e Calvino scriverà “Le fiabe italiane”, che richiamano “Le fiabe, novelle e racconti” di Giuseppe Pitré, scrittore palermi-tano della seconda metà del diciannovesimo secolo. Nel 1963 anche Sciascia pubblicherà “Giufà e il cardinale”, una operazione del tutto diversa, dice Francese, da quella di Calvino e Pitré. Il Giufà di Sciascia oltre ad essere ‘lagnusu e mariolo’ è anche malizioso e dispettoso, due qualità che l’autore riconosce al personaggio, che solo apparentemente soccombe alla prepotenza ‘razionale’ della società in cui vive come ‘scemo del villaggio’. E Francese, con ricercata e originale analisi linguistica del testo sciasciano, mette in evidenza sia lo schiaffo sul naso del giudice per uccidere la mosca, sia l’uccisione del cardinale, chiamato strumentalmente ‘cardidennu’, invece di ‘cardiduzzo’ da parte di Giufà, che così, nascondendosi furbescamente dietro la sua certificata follia, può commettere due azioni delittuose estreme senza pagarne adeguatamente il fio. In realtà Sciascia fa dello ‘scemo’ Giufà una persona motivata dalla rabbia, riconoscendo al personaggio una intelligenza non presente nell’omonimo personaggio di Pitré e Calvino. Quest’ultimo infatti vede in Giufà un pazzo, mentre Sciascia alla fine fa del personaggio un ‘vendicatore’, capace, appunto, con la sua ‘follia’ di schiaffeggiare un giudice e assassinare un cardinale senza pagarne il prezzo! Ancora un grazie al mio caro amico Giuseppe Francese, che, con i suoi raffinatissimi lavori di forte impronta filologico-linguistica, mi ha distratto anche questa volta dalla spossatezza del torrido caldo che da ogni parte ci assedia, ripeto, senza tregua. |
PUBBLICATO 09/07/2019 | © Riproduzione Riservata
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